
“Sarebbe troppo lungo passare in rassegna tutti quelli che hanno trascorso la loro esistenza giocando a dadi o a palla, o abbronzandosi il corpo al sole. Non sono oziosi costoro, con piaceri tanto esigenti. Non vi è alcun dubbio, d’altronde, che si danno un gran daffare per nulla quei romani – e sono ormai tanti – impegnati in studi eruditi e del tutto inutili. Un tempo era una mania dei Greci , quella di cercare quanti marinai avesse avuto Ulisse; o se è stata scritta per prima l’Iliade o l’Odissea e se siano entrambe del medesimo autore; e via con altre curiosità del genere che, se le tieni solo per te, non giovano alla tua maturazione interiore, mentre se ne fai sfoggio non ti fanno sembrare dotto, bensì soltanto noioso. Anche i romani sono stati presi dalla sterile passione per le ricerce futili.” (Seneca, Dialoghi morali,Einaudi, 2005 p. 351 )
Seneca se la prende con i filologi Alessandrini del III a. C., un gruppo di intelettuali che si ponevano, nella grande biblioteca egizia, queste (e molte altre) domande sulle opere e sugli autori greci giunti sotto le loro mani in forma di papiro. La critica di Seneca è una critica alla sterilità della passione (in latino inane studium: letteralmente dedizione vuota) esercitata da questi intellettuali verso studi che non mirano ad altro se non ad una erudizione, nel migliore dei casi fine a se stessa, nel peggiore noiosa per gli altri. Agli Alessandrini, e anche ai Romani che avevano cominciato anche loro a praticare studi a carattere filologico ed erudito va la critica di Seneca. Alla manifesta inutilità del sapere che Curio Dentato, vincitore di Pirro nel 275, spiegò, per la prima volta a Roma, alcuni elefanti nel suo trionfo, Seneca oppone, per raggiungere la serenità, la Sapientia, che trascende le difficoltose vie dell’impotenza umana (humanae imbecillitatis angustias) e ci consente di spaziare attraverso i secoli e i tempi. “Dialogare con Socrate, dubitare con Carneade, goderci la vita con Epicuro, dominare con gli Stoici la natura umana, superarla con i Cinici”( Seneca op. Cit. p. 359) , non i particolari eruditi della grammatica e dalla filologia, possono portare ad una educazione morale dell’individuo. Parlare con loro che hanno parlato come uomini agli uomini, loro che prima di noi hanno dato dei consigli, offerto delle riflessioni, è fare un incontro con chi ci lascerà più felice, con qualcuno con cui potremo parlare notte e giorno senza andare via a mani vuote: “ Nessuno di costoro ti spingerà alla morte, ma tutti ti insegneranno ad affrontarla; nessuno sciuperà i tuoi anni, anzi aggiungeranno i loro ai tuoi. Non dovrai temere alcun pericolo o rischio dalla loro conversazione e amicizia; e non ti costerà caro onorarli. Da essi otterrai tutto ciò che vorrai; perchè non ti impediranno certo di fare tuo quanto più desideri.” (Seneca op. Cit. p. 361)
L’unico modo per conoscere le civiltà a noi così distanti nel tempo è uno studio filologico e storico che sia il più minuzioso possibile, è vero. Persino per conoscere Seneca dobbiamo gettarci in certosini studi di stilistica, grammatica, filosofia morale. Gli elefanti di Curio Dentato, in quest’ottica, possono fornire importanti informazioni storiche. Le domande su Omero che, ancòra oggi, a più di 2000 anni di distanza dagli Alessandrini, gli studiosi si pongono ci potrebbero permettere di capire un po’ meglio il perchè della genesi di una così grande opera, di contestualizzarla meglio, di gettare luce sull’ombra, è vero. Ma lo scopo finale è il contenuto; dopo la ricostruzione, attenta, adeguata, filologica, storica, rispondente alle notizie epigrafiche e storiche che possediamo, c’è l’opera. L’opera che formi l’essere umano, che abbia potere formativo ed educativo sull’individuo, nei suoi apparati psichici e cognitivi. Un passo avanti. I nostri professori devono imparare ad educare all’emozioni: oltre i volti disattenti e distratti dei ragazzi, icona del nichilismo giovanile. Nelle loro menti bisogna far nascere, in ognuno di loro preso individualmente, nella sua esclusività e irripetibilità, un metodo per canalizzare la miriade di imput provenienti dal mondo in una serena conoscenza e sistematizzazione delle sensazioni, delle conoscenze, delle emozioni. Questo deve essere un fine, uno tra i più importanti, della letteratura nella nostra società.
“ I professori entrano in classe. Ma li vedono in faccia questi ragazzi? Li guardano uno ad uno? Li chiamano per nome? O solo per cognome quando devono essere interrogati? Sanno che la generazione di giovani con cui oggi hanno a che fare, non per colpa dei professori ma a causa delle rapidissime trasformazioni economiche, sociali e tecnologiche che li coinvolgono, sono di una fragilità emotiva impressionante? ... Ma chi doveva insegnare a questi ragazzi a parlare, a utilizzare quell’abbondante letteratura a loro disposizione che insegna come un’emozione trova forma di parola, di poesia e di sublimazione dell’amore e del dolore? A quell’età la letteratura o è educazione alle emozioni, o altrimenti vale la pena di gettarla, e, come già si sta facendo, piazzare tutti gli studenti davanti a un computer e renderli efficienti in questa pratica visivo manuale.” (Umberto Galimberti. L'ospite inquietante. Rizzoli, Milano 2007. Pag. 100)
La storia della letteratura, della filosofia non si occupino della crescita cognitiva, o meglio, non solo della crescita cognitiva e culturale, ma anche di quella emotiva. Se nelle università, ai futuri professori, sono insegnate solo tecniche e non c’è spazio per educarsi alle emozioni e ai significati profondi e umani della letteratura, come pretendiamo di avere dei professori capaci di imparare a insegnare ai ragazzi che la strumentazione del liceo (grammatica, storia) è funzionale a un bene superiore, essere cittadini, essere onesti, capire il mondo, capire se stessi?
Stop ai tecnicismi, stop al non spiegare perchè si studia cosa si studia, stop a non parlare mai del fine e sempre del mezzo. Non rendetemi una capra. Questo sistema d-istruzione spreca potenzialità ogni giorno, educa ceffi e cittadine civettuole e spreca potenziali cittadini critico-razionali. Stanchi di uno stipendo da fame, stipati in aule per topi, gli insegnanti Italiani, precari nel lavoro e nelle conoscenze, brancolano nel buio non capendo la generazione del Grande Fratello, di Facebook, dell’alcool a 13 e del sesso a 12. Credono che il loro lavoro si limiti a spiegare Galileo e l’attrazione modale a gente che a 15 anni di attrazione ha solo quella per la compagna di banco e in un turbinio emotivo confuso. Il professore sia canalizzatore di emozioni, la letteratura diventi tubo catodico concorrenziale alla merda di reality show e del talk show. Un tubo capace di bucare cuori e menti e di creare cervelli e non voragini mentali.
P.S. alle università italiane: I maestri e i professori che formate ciechi come Splinter restino nelle fognature a mangiare pizza.
2 commenti:
finalmente torni sulle mie posizioni, piccolo filologo erudito l. f., o le hai semplicemente mutuate bypassando il copywright?
baci
c.b.
Se non avessi maestre come te non so come farei, cara C.B.
Un bacio affettuoso.
L.F.
Posta un commento