2011-04-08

Terremoti genetici. Prefigurazioni a un'antropologia tettonica

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Questa vecchia signora biondaccecante, incipriata fin dentro alla gola, questa vecchia, borotalcata signora col naso all'insù, che fino a ieri sputava sudore sui palmi delle mani e si mangiava le unghie impastate di terra, questa nostra Europa monolitica e stanca e stellata s'è accorta oggi che il suo vecchio rossetto rosso è marcio, e puzza di piscio rappreso. Lo guarda noiosamente pendere sull'orlo marrone della toletta, il finto oro del tubetto fulgente di luce ocracea, sanguinolenta. Lo osserva, le palpebre dilatate, increspate di venuzze viola, fulminanti, in atto di contemplazione adesiva. Questa grande, millenaria, libera e democratica Europa contemplativa puzza di piscio rappreso, e comincia a rendersene conto.

Ultimamente questa parrucca primordiale ha visto la sua vecchia sorellona asiatica gorgogliare e trattenere il respiro, lievemente fremere, appiattendo le mani smisurate sul tavolo di marmo della cucina, le braccia irradiate, e poi venir fuori in un rutto sonoro e ristoratore, e inclinare gli occhi a mandorla in una beatitudine lucente di ritrovato sorriso.

“Alla faccia!” ribatte la nostra vecchia, pensosa, storcendo il naso.

“Bello, eh?” dice l'Asia, con voce tirata; poi continua, riprendendo finalmente il respiro: “Mi ci voleva proprio uno scossone!”

La vecchia non s'è accorta che il rossetto non solo puzza, ma incomincia a sbaffarle il mento, scolacchiando e incancrenendosi in forme ridicole e sinistre; e puzzando, e sbaffando, non trovando che rispondere, indugia, e infine tace.

Intanto, giù da quell'Africa infame e affamata, bestiale, si leva un urlo, poi due, tre, e infiniti, rincorrendosi e rispondendosi, con gli occhi al cielo; tuonano e rompono l'aria calda del deserto, venuta a dare il suo bacio spirante di benedizione a quel groviglio accecante di anime, sangue e sperma, e magliette sudate e incollate alla schiena. Sono uomini, neri come la terra, neri come la morte, neri come la libertà. Sono uomini che gridano, marciano, cantano, amano. Sono uomini! E verranno a insegnarci a gridare, a marciare, a cantare, ad amare; a vivere!

Respingerli? Neanche per sogno! Quand'anche volessimo, e provassimo, e insistessimo, ci travolgerebbero. Le dure montagne svettanti e le valli umide, gli oceani infiniti e pulsanti e le steppe e i ghiacciai si squarceranno, eromperanno, il sacro fuoco primigenio, precipitato, spirante, affiorerà dal centro della terra a rubare, ammazzare, distruggere, cancellare, azzerare. Mani nere di neri uomini ansanti sfonderanno bianchi cementi, grattacieli di ipocrisia bavosa e lacca spray. Mani nere di neri uomini assetati smonteranno, assedieranno, abbatteranno case, castelli e raffinati alberghi di pessimo gusto. Neri uomini dalle nere mani scorreranno danzanti come fiumi tortuosi, cantando e ridendo di antichissime lacrime, somministreranno il misericordioso flagello di Dio. Neri uomini ci insegneranno la miseria schiacciante e l'amore intero, neri uomini ci insegneranno la rabbia sdegnosa e la giustizia impenitente, neri uomini ci insegneranno il dolore affilato e la sapienza scolpita, la disperazione e l'allegria assoluta e terribile, la morte e la vita; neri uomini ci porgeranno nere mani per strapparci all'abisso smottato e silente; neri uomini dagli occhi limpidi c'insegneranno finalmente a vedere.

L'Europa lo sa, lo sente, l'odora. Non vuole ammetterlo, questa vecchia, scostante e miasmatica snob; ma lo sa. E trema di terrore, orrida signora in menopausa col rossetto sbaffato, nascondendosi di corsa negli angoli, dietro le porte dai vetri smerigliati, quando più lo sgomento l'assale, per non farsi vedere; mentre altrove la terra sferra un estremo starnuto nucleare; mentre altrove un profondissimo, spiccante maremoto di sangue e di seme divino, esclissando il cielo, si prepara a nientificarla e rigenerarla.

2011-04-06

Chiuse la porta alle sue spalle

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Chiuse la porta alle sue spalle. Il suo volto venne colpito dalla luce del locale, dall’acre fumo, da uno strano odore dolciastro, forse, profumo femminile, forse cipria. L’orchestrina jazz riscaldava allegramente quella piovosa sera, quasi facendo dimenticare ai clienti lo squallore che si trovava oltre quella porta. Ma forse è proprio quello l’unico reale scopo della musica. Così lei, attirata dalla musica, dalle luci che esplodevano dalle finestre, era entrata, sperando di trovare un riparo dalla pioggia e da tutti i suoi dolori. Diede al cameriere il soprabito bagnato e si accomodò ad un tavolo. Lì era tutto caldo ed accogliente. Le persone parlavano fra loro a bassa voce, i camerieri erano gentili, i musicisti suonavano la musica jazz più dolce. Ordinò un whisky. I pensieri scorrevano veloci fra quelle note. Cominciò a far oscillare il bicchiere, ballava il ghiaccio. Il vetro era freddo. E lei aveva tanta voglia di piangere. Tirò fuori dalla borsa il portasigarette d’argento. Si ricordava di quel pomeriggio, un mercoledì, aveva un terribile mal di testa, la stessa Billie Holiday , il fruscio del giradischi, lui e la lettera, ritornerai?, piangerò, sarà terribile stare senza te, e i miei studi, scivola via la mia vita, ho perso l’entusiasmo. In quel periodo fiorivano i papaveri. Erano andati a contarli. Che infantili… Ma loro non pensavano che a loro stessi. Già. I papaveri erano migliaia, persi fra i loro baci. Sapeva di averlo perso, sapeva di non possederlo realmente. Lei, con il suo quadernetto. Il vestito con i fiori rosso che faceva intravedere le forme. Lo sguardo di lui perso in quella scollatura. E vi immaginava un universo parallelo, due scollature, e la sua mano, lì, sospesa. E lui, lì, che vi si perdeva. I capelli morbidi di lei attraversati dal vento, pensieri di donne vittoriane. E quel caldo accecante, da lontano la voce della cantante sussurrava la sua solitudine. Mia madre mi starà sicuramente cercando. Ti andrebbero delle fragole? Forse preferiresti delle ciliegie? E il vento che rubava sospiri di piacere. Oggi mi ha scritto una lettera. Forse diventerà mia amica. Mi sembri distratto. Cosa ti succede? Non sarai mica geloso del suo regalo.. se non fosse stato per mio padre, non l’avrei neppure accettato. Mi gira la testa. Non starmi così vicina, il tuo odore mi soffoca. E come il vento, la sua anima improvvisamente cambiò direzione. Non canterò mai per te. Prese la sua valigia. Ritornerai? Non mentirmi. E’ solo uno stupido giorno di maggio, come puoi credere che non ti dimenticherò. Forse ti scriverò. Se vedi una rosa regalamela. Tutto questo in quel whisky, scivolando sul ghiaccio i suoi pensieri erano liberi fra quel liquido dorato. Aveva voglia di scrivere. Tirò fuori il quadernetto di pelle. La musica era dolce. Poi improvvisamente arrivarono altri musicisti. Le persone cominciarono a ballare. L’odore di cipria si era fatto sempre più forte. Lei continuava a scrivere, cercando di calmarsi, ogni tanto accarezzava il portasigarette. Incise le sue iniziali. Faceva caldo in quel locale. Le guance le si erano arrossate. Un uomo dalla voce deliziosamente sensuale cantava It’s only a paper moon. E lei scriveva specchiandosi in quel vetro bagnato, in quel ghiaccio ormai sciolto. Ma non era realmente cosciente di quello che scriveva. Seguiva le note del pianoforte, la caduta delle gocce lungo il bicchiere. Notò che le era quasi venuta voglia di ballare lungo rue 66. E ricordava le rose. Quelle sensualissime rose. Vide una ragazza dai capelli castano chiaro che indossava un vestitino verde, le ricordava una donna di Burne Jones. Si alzò, abbandonò il porta sigarette e il bicchiere ancora pieno e le chiese di ballare. La ragazza la guardo con due occhi verdi enormi, quasi infranti nella loro bellezza, sembrava dovesse cominciare a piangere da un momento all’altro. Erano proprio così i suoi occhi. Avrebbe scritto di lei una volta al tavolo. Quello sarebbe stato il suo pensiero felice per la serata. La ragazza dagli occhi infranti allungò la mano, accettando l’invito. Le due donne cominciarono a ballare, sorridendo, felici, divertendosi di quella particolare situazione. Tutti le guardavano. Certo la ragazza dagli occhi infranti era indiscutibilmente la più bella delle due, ma il corpo dell’altra si muoveva con una tale spontaneità. I vestiti leggeri si incrociavano. I capelli erano morbidi, in quella sfrenata fusione di colori. Quelli della ragazza dagli occhi infranti sembravano quasi dorati, rispetto a quelli scuri dell’altra ragazza. Tutti le guardavano. Le loro risate, sovrastavano la tromba. Alla fine della terza canzone, i due corpi, accaldati, si separarono. Gli occhi della ragazza sembravano quasi di un verde ancora più intenso, le lacrime sospese erano ancora lì. Ritornò al suo tavolo dopo aver stretto dolcemente, per l’ultima volta, la morbida ed esile mano della ballerina appena conquistata. Cominciò a scrivere di lei, di quando fosse bella. Inventò una storia sui suoi capelli morbidi, la fece finalmente piangere. La serata le era sembrata così piacevole che non esitò ad attardarsi. Tanto non c’era proprio nessuno che l’aspettava. Quella sera si sentiva libera. Forse avrebbe regalato un uccellino di carta alla ragazza. Forse. In realtà non voleva rovinare quell’incontro. I piedi le dolevano un po’. Aveva proprio bisogno di passare una serata come quella. Il viaggio in nave era stato veramente molto lungo. Ma adesso la pioggia era finita, adesso lei aveva voglia di scrivere, di ascoltare quella musica di dimenticarsi di chi continuava a dimenticarsi di lei. Un’inutile canzone sull’amore. Tutti ridevano per le parole infantili e per i modi strani del cantante. Aveva sperato fino all’ultimo, quel giorno, di poter stare con lui. Invece i suoi impegni erano sempre così numerosi. Lei veniva progressivamente esclusa dalla sua vita. Ma quel giorno si era riproposta di fare lo stesso. Aveva preso la decisione di partire, di fuggire da lui, fuggire dalla ragazza che era stata, fuggire da tutto ciò che le ricordava quelle sue mani insistenti, quegli occhi silenziosi e misteriosi. Ormai rimanevano poche persone nel locale, ordinò un gelato alla fragola, non aveva avuto modo di cenare, quella sera. Mangiando si trovò a fissare le persone nel locale. La ragazza di prima era già uscita. Ma nessuno attirava la sua attenzione. Poi si accorse che la stava fissando, fra una nota e l’altra. Il pianista. Abbassò lo sguardo. Finì il suo gelato e riprese a scrivere. Ormai erano diverse ore che si trovava lì. Cominciò a pensare a quando non riusciva a resistere più di due giorni senza vederlo. E invece il viaggio era servito per farle capire che poteva vivere anche da sola, senza di lui. Era libera dal sentimento che provava nei suoi confronti. Si sentiva libera. Aveva scoperto nuove emozioni che prima non conosceva. Aveva un nuovo sorriso, scriveva molto di più e il suo volto era più rilassato. Se non fosse stato per sua sorella, quel giorno non avrebbe riscoperto il gusto delle lacrime. Senti, devo dirti una cosa, devo dirtela io. Tornava a casa dopo una serata in quel locale per debuttanti. Era tardi… E’ morto, non è vero? Sì. Silenzio fra quelle due donne. Poi la pioggia, e i rimorsi per aver detto la parola sbagliata, quel giorno. Lacrime per tutto quello che avrebbe voluto dirgli. L’unica cosa che le rimaneva di lui era quello stupido portasigarette d’argento. - Me ne offrirebbe una? - Come, scusi? Il pianista si era avvicinato. Gli occhi erano sinceramente allegri. - Mi scusi se le sembrerò sfacciato, ma la serata è stata lunga e una sigaretta ci vuole proprio. - Certo, ne prendi anche due, tanto io non fumo. Si sieda, se vuole. - Grazie. Prese le sigarette. Ne mise una nel taschino della camicia. L’altra l’accese. Passarono alcuni secondi. Poi la guardò intensamente. Le sorrise. - E’ rimasta qui tutta la sera. Non avrà mica aspettato qualcuno che poi non è venuto, perché allora stava aspettando uno sciocco. Lei non dovrebbe mai aspettare nessuno. - Non sia troppo gentile, potrei credere alle sue parole - Ma io… La ragazza cominciò a ridere. - Era bellissima mentre ballava, sarei venuto da lei volentieri, ma sa, i musicisti suonano soltanto, a loro non è permesso ballare. - Perché mi fissava, prima? - Perché volevo riuscire a parlarle. Ero terrorizzato dall’idea che potesse andarsene da un momento all’altro. - Non ho voglia di andare a casa. - Ha forse litigato con qualcuno? - Con la notte, con la pioggia, con le lenzuola della camera d’albergo. Ho litigato con questa giornata. Questa stupida giornata. Lui continuava a fissarla, attento. La stava, forse ascoltando, ascoltando veramente? Lei si fermò a fissarlo. Sembrava stanco. Ma nonostante tutto era lì, con lei. - Hai voglia di fare una passeggiata con me? Forse ha smesso di piovere. Potremmo contare i lampioni, e magari aspettare l’alba. Quella frase l’avrebbe potuta dire lei. Sorrise.

2010-11-24

Lettera dell'uomo nato sul muro di Berlino

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Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.

Cesare Pavese

Caro lettore,

non si nasce al confine. Al confine si muore soltanto. Per l'appunto è una vita che muoio, e che sono stanco, io Georg Friedlander di nascita a dir poco bastarda. Due mondi m'han fatto, son nato a Berlino, sul muro che accolse i miei pianti, e ne infranse di altri a non numerarli.

Sono affetto da uno strabismo dei sensi: birra o vino non fa differenza, non conosco il valore del rosso o del nero, tantomeno il turchino, figurarsi a coprirlo di stelle e di strisce.

Mi hanno insignito dell'accolitato del plutocratico capital-consumismo d'età postmoderna: non a caso in un culdisacco ier l'altro un polacco ha cavato da un pacco un pregiato salvatacco. Al che, con distacco, scandisco: “Perbacco!”. E che faccio? Stacco un assegno, lo compro, lo insacco, lo vestirò sul colbacco.

Nondimeno mio nonno è un cosacco.

Quando nasci su un confine è come nascere al centro della terra, aggrappato sotto 'l pelame di Lucifero, che mai da te non fia diviso. Quando nasci su un confine non hai un dove, né un quando: sei insieme una teoria mai pensata e una prassi mancata, sei un teatro senza poltrone, solo palco ed attori. Sei meno che un cane, perché non hai il pedigree. Sei antico come le montagne, duro e freddo e inorganico, ci sei da sempre e mai ci sei stato.

Mi prendo la briga di scriverti, lettore, perché anche tu – forse non lo sai – sei nato al confine. Quando le barriere crollano, tutto il mondo è frontiera. Io ti vedo, so chi sei: anche tu, come me, sei inorganico. Sei polvere tritata e servita a cubetti. Sei il dado Knorr della globalizzazione.

Anche tu, come me, non hai casa, né patria, né tempo. Sei fatto di ossa e sudore, la tua voce parla tintinnio di monete e ticchettio d'orologi, tace campane e memorie lontane.

Anche tu sei nato su un muro, ma senza graffiti, né scritte, né segno alcuno. Anche tu, come me, se non ti fermi e rifletti, passerai via, senza infamia e senza lode. Anche tu, come me, come gli altri, come tutti: c'è un “come” che incalza, rovina e annienta le rovine. C'è un numero che ti rende uguale agli altri: anche tu, come loro, infelice.

E non c'è colpa più grave che l'essere infelici.

Scava nella memoria dei luoghi e delle persone e dai luce ad un senso più sincero del tuo essere al mondo. Sporcati. Voglio vedere le tue mani sanguinare per recuperare quel senso da un tumulo di ingiustizia ed ipocrisia. Tu che puoi, va' avanti, corri dove il muro finisce e buttati giù, nella selva.


Georg Friedlander

2010-11-08

Parole ambulanti

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Un capogiro d’anestesia mi sveglia: seduta su sei gambe, la vertigine percorre il mio contorno.
Mi appoggio faticosamente a me, come ad un pentagramma la nota d’un violento jazz.
Riduco il corpo ad un ammasso di membra gonfie di vuoto, macchine per usi impropri; un apparente groviglio di materia in un balenante moto astratto, di luce e polvere riflessa.
Io, la testa allungata dentro la cassa, quadro introspettivo d’una maligna ironia, vedo l’anfratto dei motori vitali, avviluppati ed avvizziti sotto l’ordine d’un centro rococò.
Sospensione costante di quel che sarei, porto avanti un rocambolesco esperimento pittorico ed esistenziale, sfatato da un dolceamaro odore di respiro e desiderio di respirare ancora, desiderio di porre fine a questi gradi di lontananza, a questo barbarico miraggio, furia di scordar qualcosa d’indispensabile.
Eppure qui perdo solo me, nella carezza d’un ricordo, per non dimenticare la forma familiare di due guanti: turista del vuoto sbiadita dietro un sessanta gradi di pensieri imballati.
E chissà quando il vento mi restituirà agli adamantini fili d’un discorso verace, quando mi allontanerà dall’ingenua veste del mio ebete battesimo al moralismo!
Allora, non più devota ad una linea di sentenziosi sofismi, restituirò la libertà alla soffocata mia tirannia ed opprimerò quel buon senso rovinoso: affiderò la mia spietata condotta ai migliori sragionamenti animaleschi, e sarà delizioso, allora, non accorgermene.
Andrò al letto del tempo per urlargli addio: mi salverò dall’affannoso rincorrerlo.
Sarò senza percezioni, sarò l’ombra di me finalmente corsa lontano: ed io stessa correrò, pure azzoppata da un necessario cinismo della carne.
Ma persa dietro ad un atomo confuso tra falso e aspettazione, rimango qui.
Io sono ancora qui: nascosta dietro alla presunta scompostezza dei miei arti, ne assorbo la putrida essenza ed è delizioso, ora, non sentire altro.
Mi specchio in un dubbio d’esser solo di passaggio, e mi ubriaco di uno sfocato senso di me, risultato sillogistico d’una mezza esistenza.
Ebbra, vivo lentamente, e lentamente me ne torno via.

LAVINIA MANNELLI

2010-10-21

Tutti sotto terra

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"Giro-girotondo, casca il mondo, casca la terra..."

Un buon odore di caffè tostato svolazzava sopra i lampioni della viuzza. Da qualche parte una signora tirava un secchio d'acqua scura come i fumi del carbone sull'acciottolato, e un vecchio contadino dalla fronte corrugata, seduto sul lettino foderato di mussola, inforcava il suo cappello di cuoio marrone. La saracinesca di un'antica falegnameria ammantata di segatura gracchiava dietro l'angolo, un giovane dai capelli laccati entrava nel bar facendo frusciare la tenda di perline dietro di se, e un signore chiudeva la porta di casa con un tonfo ovattato e faceva tintinnare le chiavi. Un carretto elettrico squinternato rombava scoppiettando sulla strada, alcuni motorini sfrecciavano zigzagando tra le auto ferme accanto ai marciapiedi per dialogare, e una donna salutava ammiccando con la propria voce squillante. Due ragazzini col grembiule che scendeva sino ai piedi saltellavano vivacemente, piegati all'indietro da ingombranti e variopinti zaini scolastici.

Giuseppe amava la vita di Sammartolomeo, la vita delle piccole cose. Così come il suo bisnonno, suo nonno, il padre e anche il fratello, Giuseppe aveva provato ad allontanarsi da quel luogo, tentando la carriera universitaria nella lontana Calerno e, come il bisnonno, il nonno, il padre e anche il fratello (con cui spartiva la stessa sorte) non era riuscito a vincere il richiamo magnetico della propria terra. Nelle strettezze inquinate dei quartieri cittadini, sotto i lampioni gialli, nella sporcizia ai margini delle strade, Giuseppe non sapeva dimensionarsi; preferiva la vastità dei campi coltivati a rape e fagioli, il sempiterno sussurro dei faggi frondosi, l'odore del pomodoro che sale su a grandi folate dalla pignatte di peltro della cucina, la televisione accesa che conversa con il vicolo, di sera. L'essenza dolciastra che circonfonde l'armadio di pioppo coi pannelli di compensato, il ritratto in bianco e nero dei nonni con la cornice ornata da grappoli di uva eburnea, il ferro da stiro verniciato sopra lo scaffale dello sgabuzzino, le trecce di cipolla e l'alcova di vimini dei limoni che salutano l'imbrunire, rivolti verso la costa dove il sole sprofonda, divenendo un puntino insignificante e vermiglio. Giuseppe amava il suo paese, ed era per questo che, quella mattina di fine Ottobre, serrando due lunghi fogli di plastica arrotolata sotto il braccio, camminava a passi veloci, facendo risuonare tacchi della scarpe di pelle lustra sullo scuro selciato di porfido. Nella notte era scesa un po' di guazza, e ogni dieci passi, Giuseppe era costretto a rivalutare il proprio equilibrio e moderare il passo, per evitare che l'enorme stazza del suo ventre lo facesse capitombolare a valle.
Quando ebbe raggiunto la sua destinazione – il palazzo comunale – s'affrettò a chiedere dove fosse l'assessore Sammatrice, sostenendo di aver premura di comunicare certi dati orografici di grande importanza. Una vecchia signora dagli occhialoni spinti sulla punta del naso, le unghie laccate di rosso e un seno davvero abbondante, gli rispose facendo squillare la sua voce: “Non lo so dov'è Alfredo, chiedi a Maria!”. Ma Maria non c'era, allora Giuseppe intercettò un consigliere della giunta, Francesco Delluomo, un uomo con dei grandi occhialoni scuri e una giacca di velluto a righe celesti, che elargiva arguzie con tono beffardo a due dipendenti divertiti.
“Dov'è Sammatrice? E dove può essere, è giù al bar. Portagli i miei saluti se lo vedi, digli che ancora aspetto quel caffè!”, esclamò Delluomo, roteando il suo dito come un manganello, e sollevando imberbi risate da parte dei dipendenti divertiti. Giuseppe si precipitò alla volta del bar sport, con l'affanno in gola e una certa preoccupazione. Aveva studiato giurisprudenza, ma era appassionato di geologia, meteorologia e studio del territorio, tant'è che s'era pure procurato dallo zio professore due grosse mappe del monticino dov'era abbarbicato il suo paese, sulle quali conduceva i propri studi. Le sue ultime rilevazioni sugli strati superficiali e sotterranei delle falde rocciose sui quali appoggiava la superficie di Bartolomeo, comparate ai risultati forniti dall'assessore all'ambiente, e le immediate previsioni temporalesche, facevano presagire dei grossi pericoli che, se non neutralizzati con opportuni e tempestivi interventi cautelativi, avrebbero condotto Sammartolomeo sull'orlo del disastro.
Giunto nei pressi del bar, Giuseppe attese qualche secondo all'entrata, sfregandosi nervosamente le mani. I suoi genitori non erano le persone adatte con cui parlare di politica, poiché tendevano a iper-classificare ogni componente della classe dirigente come “ladrone” o “assassino”, salvo poi onorare il migliore offerente col proprio voto durante le redditizie campagne elettorali. Per accaparrarsi qualche striminzita informazione sulle manovre politiche locali, quindi, Giuseppe ricorreva alle chiacchiere da bar di qualche amico e ai giornali regionali. L'assessore all'ambiente, quel Sammatrice che doveva incontrare, era stato delegato dal sindaco all'incarico di supervisionare i lavori di drenaggio, consolidamento e rifacimento di alcune zone considerate a rischio, circa due anni addietro. I lavori erano stati condotti da una ditta di origine calernese, intestata a un certo Giovanni Nibbia, e di cui Sammatrice era socio fiduciario. Alcune malelingue avevano messo in giro la voce che gran parte del denaro destinato a quegli interventi era stato assorbito dall'azienda di Sammatrice, culminando in un nulla di fatto, giacché alcune segnalazioni di sfaceli e frane erano presto giunte da alcuni contadini giù a valle. Poi, però, le voci erano state messe a tacere, e non se n'era saputo più nulla. Quegli interventi, considerava Giuseppe, erano vitali per la sicurezza del proprio territorio, e proprio per quel motivo gli era difficile credere che qualcuno potesse infischiarsi della tutela della propria casa e della propria famiglia.
Così, facendosi coraggio, Giuseppe entrò nel bar, scostando la tendina. L'assessore, assieme ad altri due consiglieri, se ne stava appoggiato al banco, accanto ai contenitori di plastica dei cornetti alla crema e al cioccolato, a sorseggiare il suo caffè nella tazzina Torrisi. Giuseppe lo avvicinò e gli chiese timidamente udienza.
– E tu chi sei? Il nipote di peppino? E cos'è che vuoi, fammi vedere, – esordì, con il tono allegro e l'inflessione dialettale che deformava gli accenti e raddoppiava le consonanti. Giuseppe aprì rapidamente le proprie carte, e lo informò sui punti in cui riteneva s'annidasse quel problema che avrebbe portato a un brutto disastro se non preventivato.
– Ah, ancora sapendo, – rispose l'assessore divertito, – Ma quello è già stato risolto. Tu non ti devi preoccupare. –

– Signor Sammatrice, io ho ragione di credere che la situazione sia ancora critica, per questo vorrei chiedere l'autorizzazione di corrispondere con la regione… –, propose Giuseppe.
– Ma la regione che? – lo interruppe Sammatrice in malo modo, sbattendo la tazzina di ceramica smaltata, – Tu non chiedi niente a nessuno! Ma chi sei? Tuo zio lo sa che sei qui? –
– Signore, è nell'interesse di tutti mettere al sicuro la propria casa, mi stupisco che lei se ne infischi così clamorosamente, e che nessuno se ne indigni! –, sbottò Giuseppe, che non seppe trattenere il proprio rancore.
– Ma come sarebbe a dire! –, esplose l'altro, – Tu adesso te ne vai, o io vi querelo tutti? Hai capito? Vi querelo tutti e vediamo se poi avete ancora voglia di parlare! –, continuò, tirandogli un gomito e cercando addirittura di aggredirlo con scomposte manate.
– Calmati Giovanni, lassulu peddiri, è carusu! –, cercarono di stemperare gli amici, trattenendolo, – E tu vatinni, prima ca ti pigghiamu a timpulati
Giuseppe indietreggiò di qualche passo, trattenendo le lacrime, non per la manata, né per la minaccia improvvisa, ma per l'orrore provato nel constatare che quella paura che albergava nella sua mente, il timore per la propria casa, i propri amici, la propria terra, era non solo fondato, ma anche personificato nella figura di Giovanni Sammatrice. Quell'uomo vile e turbolento che scalciava e sbraitava tra l'indifferenza e qualche risata, perché pure il bar era pieno, e nessuno faceva nulla. Giuseppe scappò via, logoro di livore e furente dalla rabbia. Risalendo per le viuzze che incrociavano il centro, l'odore del caffè non gli parve aromatico, il rombo del motorino gli rimbombò in testa e lo squillo delle risate di due anziane signore che confabulavano fittamente gli diede alla testa. Si chiedeva: “Come possono stare tutti fermi? Come possono fare finta di nulla, se è della propria vita che si parla? Come possono fare orecchie da mercante di fronte alla verità o farsi intimorire da un omuncolo che minaccia vili querele?”.
Rientrato a casa, decise di chiudersi nella sua stanza ad attendere il temporale, che già ruggiva all'orizzonte. Se quegli ignobili avevano decretato la fine della sua terra, con il giudizio inappellabile dell'indifferenza e della paura, allora lui sarebbe morto con lei. Si carcerò nella sua stanza, ritirato in un angolino, aspettando quella strepitosa tempesta che aveva calcolato, ascoltando il sibilo del vento rafforzarsi sino a divenire un boato, ignorando il mondo. Punendo l'indifferenza con altra l'indifferenza, la sua, più nitida e innocente.
Poi le nubi scure coprirono Sammartolomeo, vomitando acqua per tre lunghi anni di fila, ma alla cittadina bastarono tre giorni per scomparire sotto il peso da quelle frane annunciate da Giuseppe, dilaniata e spezzata dal peso della terra divenuta acqua, cancellata come una emula Pompei. I cittadini annegati nel fango, schiacciati dalle colpe di cui la montagna era solo funzione, e non oggetto.

Così, molti anni dopo, tutte le persone che avrebbero commemorato l'esistenza di Sammartolomeo, avrebbero additato con sconforto alle frane indicandole come la causa della sua scomparsa, ma Giuseppe, cadavere che ancora ribolliva di spirito in quelle terre, nel segreto oscuro della sua tomba d'argilla, avrebbe custodito per sempre il vero segreto della distruzione che aveva straziato il suo paese: l'indifferenza.

"...tutti giù per terra"

2010-10-14

491

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Stretti nella folla di passeggeri del 491, in piedi da circa mezz' ora, diretti verso una metà irraggiungibile.
Non pensavo che a Roma ci si impiegasse così tanto per arrivare in anticipo in un posto che, da casa mia, raggiungerei in 5 minuti. Incomincio a rimpiangere quell’ euro che avrei potuto impiegare per qualsiasi altra stronzata! Mi sento “leggermente” compresso, stritolato, a tal punto che non riesco più a percepire dove finisce il mio corpo e inizia quello degli altri! Quì c’ è un gomito, là c’è un rene... oh, il mio fegato ha appena fatto amicizia con la mano di qualcuno. Mi sento colare addosso il sudore del magrebino emaciato che si slancia come una corda di violino, per reggersi alla sbarra di ferro sopra di me. Sento la voce di una donna straniera ammonirmi sull’ orecchio sinistro parole slave, slavate, insignificanti. Siamo - tutti - nella - stessa cazzo - di barca. Ognuno con la sua routine da espletare fino in fondo: studenti che si sorridono e parlano di un compito in classe troppo difficile, punk /metallari/rifiuti umani che improvvisano una revisione discografica per il nuovo disco dei “Black Saturn”, rumeni e albanesi sporchi di stucco e calce, pietrificati sui loro jeans – un tempo blu- somiglianti a statue di sale.. più che routine, sembra una ruota della tortura! Ho la nausea. Odio questa fila, fatta di gente che sbraita, si lamenta e ricade curva nelle seggiole di plastica. Almeno io rimango nella mia silenziosa sopportazione, come il magrebino. I finestrini sono aperti, e ogni tanto percepisco anche qualche particella di ossigeno sfiorarmi il viso, ma è un miraggio. L’ aria non circola. Ha così tanti polmoni da sfamare che, prima di arrivare qui, si trasforma in vapore. Una signora anziana ben vestita, laccata e curata si sta specchiando sulla vetrata del bus. Che orrore pietoso vederla con quell’ espressione sulla faccia! Gli angoli della bocca piegati verso il basso, in una smorfia di disgusto per se stessa e gli altri. Dal viso gli pende una carne pallida e raggrinzita - un tempo morbida e rosata– che sembra cibo per cani. Ma a che diavolo sto pensando? La verità è che nessuno riesce ad adeguarsi al tempo, ed è per questo che ora la signora ha rivolto il suo avido sguardo verso una biondina due posti avanti a lei. "Che fa signorina, SCENDE?!", povera ragazza! Martirizzata dal peso dell’ esame di diritto privato, toccata nei suoi anni più splendidi dalla triste consolazione di aver barattato la sua gioventù con un bel pezzo di carta! "Si…no! Non devo scendere" , risponde insicura, stringendosi al petto il suo libro. La vecchia fa strage di spalle e si fa avanti, con gli occhi fissi ai capelli della fanciulla. Chissà perchè, adesso le sorride. Prima fermata: il bus defeca un moltitudine di facce, di sguardi, di situazioni prima di inghiottirne altre. Poi, dopo essersi riempito lo stomaco, ricomincia a camminare, con il suo passo pigro, lento. Ora accanto a me ho un “ ipod vivente ”, che si mette a canticchiare a bassa voce una canzone pop, un po’ triste. Il magrebino! Lo guarda con la mia stessa disapprovazione, poi si gira e cerca di scorgere da lontano la facciata del bus – ambizioso! -. No, nessuno è mai riuscito a vederne la fine, quando è martedì! Chi guida? Chi è che gli sta affianco? Chi grida? Chi ride? Non ci si capisce una mazza! E ill mondo gli scorre accanto, con i suoi cumuli di pattume agli angoli delle strade... con i suoi cani randagi. E’ fastidiosamente veloce,ora. Non ci si ferma mai, se non per scendere o per salire. E siamo tutti qui dentro, diretti verso le stessi posti: pusher, studenti, lavoratori in nero, universitari, nerd, vecchie, giovincelli con la mamma, colf, e in ultimo io… Perché anche se in fondo trovo sconcertante la situazione, ci sono e sto in piedi ( COME IL MAGREBINO CHE PUZZA). Io... sono soltanto un altro passeggero anonimo, uno dei tanti che non si lascia persuadere dalla bellezza del viaggio, che cerca di guardare la postazione del conducente. Abbiamo tutti pagato lo stesso prezzo per essere qua! Essere abusivi in questa marea è del tutto fuorché un privilegio. Perché quando passerà il controllore sono sicuro che non guarderà in faccia nessuno, non noterà nemmeno la puzza di merda che attornia questo bus, né l’ età o lo status sociale, o l’ etnia. Non ci sarà nessuna discriminazione, né tempo per scendere e scappare. Quando il cappellino blu si agiterà tra la folla, si assisteranno a due tipi di reazione: quella di chi vive con sprezzo la vita e tenta stupidamente la fuga, e quella di chi bonariamente cercherà di strapparsi un sorriso dalla faccia esibendo il tesserino. Ora come ora me ne rimango qui, aggrappato a questa sbarra ormai calda, in compagnia di tutti e di nessuno. E’ un po’ come camminare da solo in mezzo alla fila della domenica in centro. Il magrebino ha capito la situazione e lancia delle occhiate al carticino che ha sulle dita.
Ma tu? Tu ce l’ hai il biglietto?


SIMONE PALMIERI

2010-10-08

Lettera del Misantropo moribondo per molta bile al cuore.

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Finalmente mi definivo Misantropo. Avevo smesso di infarcirmi il cuore, sede dei sentimenti, con quelle sviolinate smielate sul modello libro Cuore. Avevo smesso di vedere, come un pesce boccheggiante, quegli stupendi pesciolini colorati. Pesciolini colorati che erano esche: e nascondevano ami. Pronti a devastare la mia bocca sempre pronta. Pronta a gridare parole d’amicizia. Parole d’amicizia stop. Sentimento d’amicizia doppio-stop. Ora basta! concedersi per intero, concedersi tutto, concedersi a tutti, aprire il culo come un trans per una dose di amicizia che sarebbe arrivata sporca, tagliata male, infetta di sangue malato. Niente purezza ideale. niente stato perfetto nell’amicizia. Era ormai una dose di eroina scarica, una dose verso la morte, lontano dall’esistenza ideale-pura- astratta. Da bravo credente-praticante cercavo e, illuminato da varie teorie filosofiche più o meno idealistico-buonistiche, credevo che il bene avrebbe trionfato, che l’amico perfetto sarebbe esistito, che qualcuno che per me avrebbe dato il culo -come io avevo fatto tante volte- ci sarebbe stato. Ma no. Non era così. I tempi cambiati: alcuni malati mentali, cazzi-loro congeniti da sbrigare, senza tempo e modo per servirmi, desiderosi solo di essere serviti con un’attenzione maniacale alle stronzate che avrebbero vomitato sui loro problemi personali con un Ego degno del peggiore dittatore sudamericano. Altri, pur professandosi liberi, fermi perennemente in schemi fissi, fermi in filosofia, nella libertà sessuale professataMAIpraticata, inchiodati ad idee noiose e pararivoluzionarie stantie come la parola stantio. Allora stop: rigetto le teorie filosofiche più o meno idealistico-buonistiche, mando in soffitta secoli di riflessione filosofica, me ne fotto della mediazione e dell’accettazione della diversità degli altri, me ne sbatto della politica delle amicizie, mi propongo e scompongo come corridore di un gran premio con un alettone completamente rotto e col motore della scuderia che invece di avere macchine formula1 manda in pista cavalli con caschi (in realtà elmi medievali) e con alettoni montati sulla coda e zoccoli duri o morbidi sul bagnato e sull’asciutto e viceversa. Deluso dall’angoscia interiore provocata dal mio malessere psico-esistenziale continuo, mi alcolizzo con il solito stock alla ciliegia e vomito in un anfratto sconosciuto in cui trovo un lombrico che mi sta simpatico, per cui provo empatia, che so non mi tradirebbe per una ragazza più figa di me, che so che non preferirebbe una devastante discussione ripetitiva a quel silenzio che sta unendo il nostro incontro e lo sta suggellando come ceralacca sulla lettera del cardinale di sticazzi. Prendo il lombrico e lo schiaccio con tutta la violenza di cui è capace il palmo della mia mano: anche lui, se fosse uomo, mi tradirebbe, se ne avesse l’occasione. E infatti lo fa anche da animale: la mia mano, che l’ha schiacciato con la violenza con cui un’amica usa un voodoo su un’amica rivale in amore, adesso puzza del suo tanfo infernale, come infernale è il tanfo dei tradimenti, delle pugnalate, dei calci che mi sono stati dati e che ho tollerato da bravo penitente-credente. Adesso basta. Ogni atteggiamento, pure legittimo, pure corretto, pure parte integrante del carattere di un individuo, può irritarmi e diventare oggetto di acido solforico e uova marce che fluiscono adesso libere dalla mia bocca, senza più alcun freno. E tanto sarò più caustico quanto sarò sottilmente ironico. Tanto manifesterò disagio quanto più, da solo, mi crogiolerò nel dolore per la perdita di un valore mai esistito, per la morte di un dio ingiusto. Nella certezza che se non ho la stanza dei bottoni con cui far venire le emorroidi a falsi detentori della giustizia, ci sarà sempre un millepiedi in un anfratto, un millepiedi pronto a farsi schiacciare. E l’unica consolazione sarà pensare che a tanti piedi possano corrispondere tante gambe (da spezzare).