"Giro-girotondo, casca il mondo, casca la terra..."
Un buon odore di caffè tostato svolazzava sopra i lampioni della viuzza. Da qualche parte una signora tirava un secchio d'acqua scura come i fumi del carbone sull'acciottolato, e un vecchio contadino dalla fronte corrugata, seduto sul lettino foderato di mussola, inforcava il suo cappello di cuoio marrone. La saracinesca di un'antica falegnameria ammantata di segatura gracchiava dietro l'angolo, un giovane dai capelli laccati entrava nel bar facendo frusciare la tenda di perline dietro di se, e un signore chiudeva la porta di casa con un tonfo ovattato e faceva tintinnare le chiavi. Un carretto elettrico squinternato rombava scoppiettando sulla strada, alcuni motorini sfrecciavano zigzagando tra le auto ferme accanto ai marciapiedi per dialogare, e una donna salutava ammiccando con la propria voce squillante. Due ragazzini col grembiule che scendeva sino ai piedi saltellavano vivacemente, piegati all'indietro da ingombranti e variopinti zaini scolastici.
Giuseppe amava la vita di Sammartolomeo, la vita delle piccole cose. Così come il suo bisnonno, suo nonno, il padre e anche il fratello, Giuseppe aveva provato ad allontanarsi da quel luogo, tentando la carriera universitaria nella lontana Calerno e, come il bisnonno, il nonno, il padre e anche il fratello (con cui spartiva la stessa sorte) non era riuscito a vincere il richiamo magnetico della propria terra. Nelle strettezze inquinate dei quartieri cittadini, sotto i lampioni gialli, nella sporcizia ai margini delle strade, Giuseppe non sapeva dimensionarsi; preferiva la vastità dei campi coltivati a rape e fagioli, il sempiterno sussurro dei faggi frondosi, l'odore del pomodoro che sale su a grandi folate dalla pignatte di peltro della cucina, la televisione accesa che conversa con il vicolo, di sera. L'essenza dolciastra che circonfonde l'armadio di pioppo coi pannelli di compensato, il ritratto in bianco e nero dei nonni con la cornice ornata da grappoli di uva eburnea, il ferro da stiro verniciato sopra lo scaffale dello sgabuzzino, le trecce di cipolla e l'alcova di vimini dei limoni che salutano l'imbrunire, rivolti verso la costa dove il sole sprofonda, divenendo un puntino insignificante e vermiglio. Giuseppe amava il suo paese, ed era per questo che, quella mattina di fine Ottobre, serrando due lunghi fogli di plastica arrotolata sotto il braccio, camminava a passi veloci, facendo risuonare tacchi della scarpe di pelle lustra sullo scuro selciato di porfido. Nella notte era scesa un po' di guazza, e ogni dieci passi, Giuseppe era costretto a rivalutare il proprio equilibrio e moderare il passo, per evitare che l'enorme stazza del suo ventre lo facesse capitombolare a valle.
Quando ebbe raggiunto la sua destinazione – il palazzo comunale – s'affrettò a chiedere dove fosse l'assessore Sammatrice, sostenendo di aver premura di comunicare certi dati orografici di grande importanza. Una vecchia signora dagli occhialoni spinti sulla punta del naso, le unghie laccate di rosso e un seno davvero abbondante, gli rispose facendo squillare la sua voce: “Non lo so dov'è Alfredo, chiedi a Maria!”. Ma Maria non c'era, allora Giuseppe intercettò un consigliere della giunta, Francesco Delluomo, un uomo con dei grandi occhialoni scuri e una giacca di velluto a righe celesti, che elargiva arguzie con tono beffardo a due dipendenti divertiti.
“Dov'è Sammatrice? E dove può essere, è giù al bar. Portagli i miei saluti se lo vedi, digli che ancora aspetto quel caffè!”, esclamò Delluomo, roteando il suo dito come un manganello, e sollevando imberbi risate da parte dei dipendenti divertiti. Giuseppe si precipitò alla volta del bar sport, con l'affanno in gola e una certa preoccupazione. Aveva studiato giurisprudenza, ma era appassionato di geologia, meteorologia e studio del territorio, tant'è che s'era pure procurato dallo zio professore due grosse mappe del monticino dov'era abbarbicato il suo paese, sulle quali conduceva i propri studi. Le sue ultime rilevazioni sugli strati superficiali e sotterranei delle falde rocciose sui quali appoggiava la superficie di Bartolomeo, comparate ai risultati forniti dall'assessore all'ambiente, e le immediate previsioni temporalesche, facevano presagire dei grossi pericoli che, se non neutralizzati con opportuni e tempestivi interventi cautelativi, avrebbero condotto Sammartolomeo sull'orlo del disastro.
Giunto nei pressi del bar, Giuseppe attese qualche secondo all'entrata, sfregandosi nervosamente le mani. I suoi genitori non erano le persone adatte con cui parlare di politica, poiché tendevano a iper-classificare ogni componente della classe dirigente come “ladrone” o “assassino”, salvo poi onorare il migliore offerente col proprio voto durante le redditizie campagne elettorali. Per accaparrarsi qualche striminzita informazione sulle manovre politiche locali, quindi, Giuseppe ricorreva alle chiacchiere da bar di qualche amico e ai giornali regionali. L'assessore all'ambiente, quel Sammatrice che doveva incontrare, era stato delegato dal sindaco all'incarico di supervisionare i lavori di drenaggio, consolidamento e rifacimento di alcune zone considerate a rischio, circa due anni addietro. I lavori erano stati condotti da una ditta di origine calernese, intestata a un certo Giovanni Nibbia, e di cui Sammatrice era socio fiduciario. Alcune malelingue avevano messo in giro la voce che gran parte del denaro destinato a quegli interventi era stato assorbito dall'azienda di Sammatrice, culminando in un nulla di fatto, giacché alcune segnalazioni di sfaceli e frane erano presto giunte da alcuni contadini giù a valle. Poi, però, le voci erano state messe a tacere, e non se n'era saputo più nulla. Quegli interventi, considerava Giuseppe, erano vitali per la sicurezza del proprio territorio, e proprio per quel motivo gli era difficile credere che qualcuno potesse infischiarsi della tutela della propria casa e della propria famiglia.
Così, facendosi coraggio, Giuseppe entrò nel bar, scostando la tendina. L'assessore, assieme ad altri due consiglieri, se ne stava appoggiato al banco, accanto ai contenitori di plastica dei cornetti alla crema e al cioccolato, a sorseggiare il suo caffè nella tazzina Torrisi. Giuseppe lo avvicinò e gli chiese timidamente udienza.
– E tu chi sei? Il nipote di peppino? E cos'è che vuoi, fammi vedere, – esordì, con il tono allegro e l'inflessione dialettale che deformava gli accenti e raddoppiava le consonanti. Giuseppe aprì rapidamente le proprie carte, e lo informò sui punti in cui riteneva s'annidasse quel problema che avrebbe portato a un brutto disastro se non preventivato.
– Ah, ancora sapendo, – rispose l'assessore divertito, – Ma quello è già stato risolto. Tu non ti devi preoccupare. –
– Signor Sammatrice, io ho ragione di credere che la situazione sia ancora critica, per questo vorrei chiedere l'autorizzazione di corrispondere con la regione… –, propose Giuseppe.
– Ma la regione che? – lo interruppe Sammatrice in malo modo, sbattendo la tazzina di ceramica smaltata, – Tu non chiedi niente a nessuno! Ma chi sei? Tuo zio lo sa che sei qui? –
– Signore, è nell'interesse di tutti mettere al sicuro la propria casa, mi stupisco che lei se ne infischi così clamorosamente, e che nessuno se ne indigni! –, sbottò Giuseppe, che non seppe trattenere il proprio rancore.
– Ma come sarebbe a dire! –, esplose l'altro, – Tu adesso te ne vai, o io vi querelo tutti? Hai capito? Vi querelo tutti e vediamo se poi avete ancora voglia di parlare! –, continuò, tirandogli un gomito e cercando addirittura di aggredirlo con scomposte manate.
– Calmati Giovanni, lassulu peddiri, è carusu! –, cercarono di stemperare gli amici, trattenendolo, – E tu vatinni, prima ca ti pigghiamu a timpulati –
Giuseppe indietreggiò di qualche passo, trattenendo le lacrime, non per la manata, né per la minaccia improvvisa, ma per l'orrore provato nel constatare che quella paura che albergava nella sua mente, il timore per la propria casa, i propri amici, la propria terra, era non solo fondato, ma anche personificato nella figura di Giovanni Sammatrice. Quell'uomo vile e turbolento che scalciava e sbraitava tra l'indifferenza e qualche risata, perché pure il bar era pieno, e nessuno faceva nulla. Giuseppe scappò via, logoro di livore e furente dalla rabbia. Risalendo per le viuzze che incrociavano il centro, l'odore del caffè non gli parve aromatico, il rombo del motorino gli rimbombò in testa e lo squillo delle risate di due anziane signore che confabulavano fittamente gli diede alla testa. Si chiedeva: “Come possono stare tutti fermi? Come possono fare finta di nulla, se è della propria vita che si parla? Come possono fare orecchie da mercante di fronte alla verità o farsi intimorire da un omuncolo che minaccia vili querele?”.
Rientrato a casa, decise di chiudersi nella sua stanza ad attendere il temporale, che già ruggiva all'orizzonte. Se quegli ignobili avevano decretato la fine della sua terra, con il giudizio inappellabile dell'indifferenza e della paura, allora lui sarebbe morto con lei. Si carcerò nella sua stanza, ritirato in un angolino, aspettando quella strepitosa tempesta che aveva calcolato, ascoltando il sibilo del vento rafforzarsi sino a divenire un boato, ignorando il mondo. Punendo l'indifferenza con altra l'indifferenza, la sua, più nitida e innocente.
Poi le nubi scure coprirono Sammartolomeo, vomitando acqua per tre lunghi anni di fila, ma alla cittadina bastarono tre giorni per scomparire sotto il peso da quelle frane annunciate da Giuseppe, dilaniata e spezzata dal peso della terra divenuta acqua, cancellata come una emula Pompei. I cittadini annegati nel fango, schiacciati dalle colpe di cui la montagna era solo funzione, e non oggetto.
Così, molti anni dopo, tutte le persone che avrebbero commemorato l'esistenza di Sammartolomeo, avrebbero additato con sconforto alle frane indicandole come la causa della sua scomparsa, ma Giuseppe, cadavere che ancora ribolliva di spirito in quelle terre, nel segreto oscuro della sua tomba d'argilla, avrebbe custodito per sempre il vero segreto della distruzione che aveva straziato il suo paese: l'indifferenza.
"...tutti giù per terra"