
Proprio coerentemente con questa tendenza alla sproletarizzazione del brutto, che si erge a icona distintiva della nostra odierna cultura “di massa”, sta l'idea che la politica debba abbassare i toni, che, per essere precisi, è lecito alzare i toni solo per condannare chi alza i toni. Eccolo l'apice del brutto: impedire a chi prova disgusto di esprimerlo. Credete sia possibile esprimere il proprio disgusto con tono pacato e flemmatico? Io no. Questa fastidiosa insistenza sull'Amore, ossia questa poderosa campagna propagandistica in favore della monocultura, della monoideologia, insomma della monostupidità collettiva è un ulteriore passo verso la materializzazione di quello spettro del nostro passato che è il monopartito.
Fatta questa premessa, l'argomento principale di questo intervento consta di alcune considerazioni su un problema già anticipato in qualche modo nelle prime righe, e che si rispecchia fedelmente in questa tirannia dell'Unico alla quale giornalmente gli italiani sono sottoposti: il problema dell'integrazione degli “stranieri”.
Buona parte delle manifestazioni più splendenti dell'ingegno umano le abbiamo ricevute da popoli che si distinguevano dagli altri per una varietà così accentuata da risolversi in una sorta di intrinseca diversità da se stessi. A scopo meramente paradigmatico, l'alba della filosofia e della letteratura occidentali vede la luce nella Grecia dell'VIII/VII secolo a.Cr., accompagnata ad un impressionante sviluppo in discipline come la matematica, l'astronomia, la medicina. La Grecia di quel periodo era una fiorente civiltà commerciale, che estendeva i propri commerci su gran parte delle coste del Meditarraneo, a contatto continuo con i popoli più disparati: dagli egizi ai fenici, fino in Mesopotamia. La sua struttura stessa di Stato suddiviso in tante piccole, autonome città-Stato ne faceva un campione eccellente della capacità dell'uomo di trovare fondamentali linee di coesione anche tra gruppi divisi, per altri versi, da differenti sistemi di governo, differenti divinità tutelari, differenti modi di parlare. E se è vero che nella riflessione politica di Aristotele la parola barbaros(“straniero”) e la parola dulos(“schiavo”) vengono quasi a coincidere – per motivi storico-economici, molto meno, invece, ideologici- è anche vero che lo stesso filosofo di Stagira riconosce nella sua “Politica” una dignità agli schiavi in quanto esseri umani(affermazione che, per quei tempi, ha una portata quasi rivoluzionaria). Del resto, a testimoniare l'apertura dei greci(ammesso che di essi si possa parlare come di un tutto armonico e coerente) nei confronti dei popoli “altri” stanno l'interesse inesauribile per i particolari etnografici dall'aria “esotica” che si può riscontrare attraverso la lettura degli storici più famosi(Senofonte, Polibio, Plutarco), da una parte, dall'altra l'importanza fondamentale attribuita da tutta quanta la grecità, fino all'età classica, al valore irrinunciabile dell'ospitalità: l'ospite è sacro e in quanto tale va rispettato.
Qualcuno potrebbe dire che “va bene rispettare lo straniero, ma concedergli addirittura una componente sacrale è un'esagerazione”. Tuttavia, quello stesso conglomerato culturale che prende il nome di “identità”(che tanto è inneggiata da chi, lo straniero, piuttosto che accoglierlo, preferisce cacciarlo) non può essere tenuto vitale se non attraverso un continuo confronto con il “diverso”, che renda possibile riconoscere chiaramente quali siano i confini del proprio modo di concepire e di vivere la vita, per quali peculiarità esso si caratterizzi e acquisti una marca che lo fa percepire coscientemente come “proprio”: è per questo che, se è lecito concedere uno statuto di sacralità alle nostre tradizioni, ai nostri costumi, alla nostra storia, per il fatto che essi ci permettono di riconoscerci l'un l'altro e di poter usare un “noi” traboccante di significati non meramente istituzionali, finisce per essere doveroso – è un fatto di coerenza e fedeltà a se stessi – concedere altrettanta sacralità a chi, questa nostra peculiarità, ci aiuta a riconoscerla, e soprattutto a storicizzarla, conoscerne i limiti e i vantaggi. Questo, infatti, è un punto di vista utile in senso conservativo, è vero(in quanto concerne il mantenere vigoroso il nostro senso di appartenenza), ma anche in senso evolutivo: come se non mediante il confronto potremmo riuscire a capire se, e in tal caso dove, sbagliamo? O semplicemente venire a conoscenza di un'ottica diversa, di un'alternativa, di una di quelle risorse che non sono certo di peso ad un paese in crisi, ossia la varietà?
La ricerca della diversità può essere condotta in due versi: c'è una diversità diacronica che è quella che un popolo rappresenta a se stesso, ossia le fasi storiche che ha attraversato prima di diventare qual è, ciò di cui si occupano specialmente le discipline umanistiche – e a tal proposito indovina Alfonso Traina, filologo classico di fama mondiale, quando scrive “Che cos'è la cultura se non la coscienza della propria storicità?” -; e c'è una diversità, per così dire, sincronica che consiste nelle inevitabili(e spesso molto rilevanti) differenze che all'interno di una “macro-cultura” sono segnate dalle varie “micro-culture” che la arricchiscono e ne fanno la base portante, e ancor di più nelle grandi(ma saranno poi così grandi?) linee di discrimine che la separano da culture “altre”, popoli “altri”, mondi “altri”.
“Tuttavia, se la nociva soppressione della libertà di parola, in una situazione in cui le opinioni comunemente accettate sono vere, si limitasse a lasciare gli uomini nell'ignoranza dei fondamenti di queste opinioni, la si potrebbe considerare un male intellettuale ma non morale, che non diminuisce la validità delle opinioni in quanto elementi che influiscono sul carattere. Nella realtà però la mancanza di discussione non solo fa dimenticare i fondamenti di un'opinione, ma il suo stesso significato. Le parole che la esprimono non suggeriscono più idee, o suggeriscono solo una piccola parte di quelle che comunicavano originariamente. Al posto di un concetto vigoroso e di una convinzione viva, restano solo poche frasi meccanicamente apprese; oppure, se resta qualcosa del significato, è solo l'involucro, e la profonda essenza si è persa. Non si studierà e mediterà mai a sufficienza il grande capitolo della storia umana che questo fenomeno costituisce.”
John Stuart Mill, “Saggio sulla libertà”, Milano, il Saggiatore, 1981, p. 45
Lasciare parlare il diverso. E se non parla, interrogarlo. Esplorarlo, comprenderlo, uscire da se stessi, immedesimarsi, per rientrare più forti, magari più convinti, ma di certo più aperti e più coscienti.
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