2010-01-31

I pensieri dell'uomo lontano

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Chi è stato colui che ha detto che nell'istante in cui muori ti passa tutta la vita davanti agli occhi?
Non è vero: ha mentito.
In realtà, negli istanti precedenti al termine il tempo inizia a rallentare, piano: i martelli smettono di battere nei cunei delle ribaditure, le scintille si fermano in aria disegnando tante piccole stelle porporine, il suono del martello pneumatico diviene sempre più lento, lento, tanto che sembra il suono di una vecchia automobile che rifiuta di mettersi in moto.
Lento.
Non riesco a muovere il mio capo, gli occhi sono fissi ad osservare l'ombra dell'impalcatura allungarsi e allungarsi, lentamente, diventando sempre più grande e definita; riesco a distinguere i dettagli: la cassetta degli attrezzi che si apre, lasciando andare la moltitudine di oggetti custoditi, vinti dalla gravità, e mentre osservo le ombre che tracciano sul selciato mi sembra di vedere mille neri coriandoli che esplodono festosi.
A questo punto ti starai chiedendo: “Dunque è questa la morte? È così che si muore? Questo è quello che si vede quando si giunge alla fine, prima di andare all'aldilà?”.
No, non è questa l'idea che ho di morte, nemmeno adesso che avverto il sommesso clangore dei tubi di metallo che fuoriescono dalle giunture, dei bulloni che si annodano, del mondo che mi cade addosso.
No, non è morte.
Morte è sentire su per il naso le zaffate salmastre delle onde spumeggianti del mare in tempesta, stipato con altri cento esseri umani come te, impauriti come te; sentire le loro ossa contro le tue, la pressione della parete di ferro dello scafo, i bulloni che pulsano lungo la linea del tuo cranio e il puzzo del tuo stesso sudore lavato e rilavato da acqua e sole, acqua e sole, tanto da pensare se davvero sia possibile per un uomo fare una tale puzza.
(ma è reale e lo senti)
Nella notte stellata coperta da nubi gravide di pioggia, scorgere i fari delle imbarcazioni che passano, ti scrutano con il loro occhio accecante per poi rivolgere il fascio di luce altrove, profondamente rammaricate di averti osservato, anche solo per un attimo. E non ti arrabbi per questo, poiché sai che avresti la stessa sensazione se incrociassi lo sguardo di uno dei tuoi compagni di sventura. E nei suoi occhi scorgeresti la stessa morte che alberga nel tuo corpo, in quel-preciso-istante.
Morte è anche accettare di issare sacchi di sabbia, trainare carrucole tracimanti di mattoni, tirare funi legate a decine di assi metalliche, inchiodare ribattini, legare corde, impastare il cemento (se avevo i soldi per una betoniera non mi scomodavo a chiamare uno come te), impilare mattoni, pulire gli attrezzi, riporre carrucole, stendere teli impermeabili, caricare gli alimentatori, respirare le esalazioni esiziali delle polveri senza nemmeno una mascherina, per nove ore al giorno, per cento o duecento euro al mese.
(ci sono centinaia di persone come te là fuori che vorrebbero il tuo posto).
Scorgere nello sguardo dei tuoi compagni (dei tuoi pari) un riflesso torvo, forse non di disprezzo, ma di superiorità, mentre un sorrisetto appare all'angolo delle labbra, di scherno, e pensi di conoscere sin troppo bene i loro pensieri: “È dura qui, eh? Perché non torni da dove sei venuto.
Ti sembrerà orrendo, vero?
Allora lasciami aggiungere che, secondo me, Morte è ascoltare il fruscio delle tende di plastica straziate dalle piogge intense mentre, sorrette a mezz'aria, intonano la loro triste melodia notturna, permettendo al vento di sibilare attraverso i buchi del loro corpo butterato, acquisendo una voce propria che così ben si confà all'eco spento dei tuoi pensieri. Ai ricordi lontani di Shamira, con i suoi occhi color nocciola e i suoi lineamenti dolci, che sospira alle stelle luminose dell'Eritrea e canta la sua canzone: che parla di speranza, che parla di vita. Echi di guerre, di spari, di figure tetre che spalancano le porte di notte, per perquisire, per frantumare.
(i sogni)
E la voce di Shamira non canta più del pastore che richiama le pecore dall'altopiano, che sospira al vespro e sorride al mattino. Proprio in quel momento, mentre la schiena si appiattisce sulla stuoia recuperata in quell'angolo della strada, con un filo di cartone a farti da coperta e la triste melodia del vento a evocare i tuoi ricordi, in quel momento ripensi al buon odore dell'argilla e delle canne di bambù selvatico, allo sciacquio del Nilo, così intenso, che potevi sentire nelle notti calde e silenziose, al riverbero diafano dei bambini che giocano e si lanciano schizzi nelle pozzanghere, tornando alle case con i calzoncini e le magliette ridotte ad un canovaccio ecru. E ti chiedi, dal profondo del tuo cuore libero che, se non è Morte quella, allora che cos'è?
Che cos'è la Morte?
Allora lasciami dire Amico mio, che non ti conosco, ma lascia che ti chiami Amico, perché vorrei che lo fossi, mio Amico, anche adesso che sto morendo, anche adesso che le ombre diventano così affilate da sentire il formicolio del metallo che sfibra la mia vita ancor prima di colpirmi; anche se sono nero, se ho fatto o faccio puzza, se i miei occhi sono troppo bianchi e i miei denti troppo neri, se il mio aspetto ti fa paura e la mia pelle ti fa ribrezzo, sii mio Amico.
Adesso.
E io ti svelerò che in questo istante congelato nel tempo, come lo scatto di una fotografia, non c'è malvagità nell'aria che respiro, chiudendo gli occhi sento ancora i gabbiani cantare lungo i costoni di roccia dell'Africa settentrionale, vedo il Mediterraneo spumeggiare contro le scogliere e credo di non aver paura di Lui, l'acre sapore del sale non mi sembra dopotutto così aspro; e rivedo Shamira, ancora staccata contro il cielo che risplende, contro il Grande Carro e la Stella Polare, guardarmi e sorridermi, e nessun uomo, nessuna donna, nessuna creatura malvagia che cammini tra le stelle o vaghi per la terra, nessuno dovrà costringermi a separarmi da lei, e potrò vivere per sempre.
Questa è la Morte, questa è la Morte che sento, più forte della vita, ed io non vedo Vita negli occhi spenti di quelle figure oltre me, che mi guardano, che mi scrutano, che fanno pensieri così scroscianti che nel crepitio riesco a sentire: “uno in meno, uno in più, che differenza fa?”, “era meglio che restavi dov'eri”, e vedo, ne sono sicuro, che nei loro occhi, in QUEGLI occhi, non c'è Vita e non c'è mai stata.

Mai.

2010-01-24

Dialogo tra un imprenditore ed un petrarchista - Operetta morale

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In una caffetteria nell'esmisfero nord della Luna s'incontrano due paradigmi esistenziali.

Imprenditore: Vossignoria, se non v'è d'uggia, potreste dirmi come mai non vi scostate da tre ore e mezza da codesta seggiola?
Petrarchista: Leggo.
Imprenditore: Immagino ben quali ne siano a voi i profitti, se vi profondete in codesto ufficio tutto il dì e talvolta anche la notte, e con che zelo!
Petrarchista: Già.
Imprenditore: Che genere di profitti? Ditemi, ve ne prego! Trattasi forse di gioielli?
Petrarchista: Certo che no.
Imprenditore: No? Meglio, dunque? Forse è di grandi somme di danaro che si parla?
Petrarchista: Danaro? Nemmeno per ischerzo!
Imprenditore: Ma, di grazia, che v'è di guadagno in codesto studio? Son forse donne? Regali? Prelibatezze?
Petrarchista: No.
Imprenditore: Ma certo dev'esser qualche specie di mecenatismo! Ditemi, chi - lodato ne sia ed ammirato! - vi ospita e vi mantiene tanto gentilmente da spingervi a codesto obbligo onustissimo?
Petrarchista: Nessun obbligo mi spinge a tanto ufficio.
Imprenditore: Cosa, dunque, a ciò v'induce, per la bontà del Cielo?
Petrarchista: E' una quistione d'umanità.
Imprenditore: Umanità? Non vi seguo. In che senso?
Petrarchista: Ciò ch'io leggo è l'umanità che in me risiede. Leggo il senso della bellezza e ivi mi specchio.
Imprenditore: L'avevo detto che si trattava di donne! Perché negare? Vossignoria sa quanto lungi da me possa esser il proposito di farne parola con altri. Dunque è la lettera d'una donna! Non vi spiaccia di dirmi chi è: quando è di notti d'amore che parlasi non riesco a rattenere la curiosità!
Petrarchista: Chi ha parlato di donne? E' di un uomo che leggo.
Imprenditore: Un uomo? Anche voi quell'orribile devianza!
Petrarchista: Si chiamava Francesco Petrarca. Nei suoi versi compìti ha racchiuso il suo forte sentire per donarne l'emozione a noi, che riviviamo il ritmo del suo respiro recitandone le parole eterne.
Imprenditore: Che sorta di perversione è mai questa?
Petrarchista: E' la letteratura.
Imprenditore: La letteratura?
Petrarchista: Certo, mio caro, la letteratura. E' quell'immensa risorsa di esperienze di vita che gli uomini si trasmettono l'un l'altro, e attraverso cui ci è possibile scandagliare l'animo nostro ed imparare a conoscere le nostre emozioni, comparandole a quelle altrui. Anzi, vi dirò di più: la letteratura mena con sé tutta una serie di complicazioni filosofiche e sfumature di senso che fanno da strumento ad una visione del mondo, della vita, della storia sempre più profonda e consapevole.
Imprenditore: Temo di non capirvi, signore. Certo, che bella fregatura dev'essere codest'ufficio di cui parlate, se non vi porta neppure del pane di cui disporre a stornar la fame!
Petrarchista: In realtà, sono stipendiato per insegnare queste cose a giovini con la mia stessa passione.
Imprenditore: Bene! Allora è per questo che lo fate!
Petrarchista: Nient'affatto. Me ne sono occupato per anni, quando ancora non mi pagavano, e intanto svolgevo anche altre occupazioni più redditizie, che provvedessero a sfamar questa.
Imprenditore: Voi siete stato un bel fesso, lasciatevelo rimproverare! A che pro tutto codest'affanno se poi neppure se ne empie la tasca?
Petrarchista: Nella letteratura ricerco la bellezza, tento di colmare quell'assenza di significato ch'è nelle favelle inconsistenti dei politicanti e nello spettacolino di commedianti e veline in tutta la loro turgida vacuità. L'arte, la letteratura, la filosofia servono a discoprire la vita sotto aspetti sempre nuovi, che permettono, al risveglio del mattino, di provare il piacere della luce del sole che gratta la fronte assonnata. Nei versi d'un poeta v'è il rumore della pioggia, l'anima del cielo si sostanzia in un sussurro delicato. Parlo di quei fondamentali mezzi creativi mediante i quali l'uomo esprime il proprio essere uomo, di volta in volta diverso, a seconda delle epoche, dei luoghi, delle culture e anche, talvolta, dell'umore del momento. Il mio riconoscermi in quelle sensazioni, rinnovellate in una foggia assai variata e strana, la dolcezza cantilenante di un sonetto, la musica che suona quelle rime e il tepore di parole secolari, eppure così vive, così pure... vale forse questo un pugno di danari? I danari saran d'uopo a campare, ma campare non è lo stesso che vivere.
Imprenditore: Diavolo d'un comunista! Con codesta voce esaltata mi spaventate! E' forse vostro proposito quello di estorcermi del danaro? Sapete che non mi lascio prendere in giro! So bene a che servono le belle parole, ma pensavo che tra galantuomini se ne potesse far a meno. Di certo non vi aspetterete che io vi paghi per star tutto il giorno su dei libri a perder tempo! L'Economia non si giova minimamente di codesti diletti puerili e oziosi. Il tempo è danaro, e voi lo scialacquate così! Vi par forse responsabile codesto contenimento?
Petrarchista: Per voi tutto è danaro! Ogni uomo, a seconda dei casi, un acquirente o un centro commerciale. E la vita? Vi par forse di vivere in eterno?

Il petrarchista esce dal locale. L'uomo d'affari resta impassibile per pochi attimi, poi trova distrazione nell'apparecchio televisivo. Si siede sorseggiando un caffé a capo chino, gli occhi rivolti allo schermo colorato.

2010-01-17

Palermo e la città (in)visibile

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Se si ha ancora un pugno di senso critico e un barlume di sensibilità superstite ai ladri tecnologici, a mettere piede per la prima volta a Palermo ci si sente come Armstrong sulla Luna ( che poi lasciare le proprie orme non è così difficile dato lo spesso strato di liquami calpestabili).

Palermo è la Leonia di Calvino. Città che si distrugge e ricostruisce sempre uguale a se stessa , in bilico tra fasti e miseria.

Palermo è un ossimoro con il suo centro storico caotico, odoroso, la gente bene di via Libertà, che dimentica di affacciarsi sul mondo anche se spesso per la sua eterogeneità ne è sineddoche .

Palermo è un’isola a capo di un’isola.

Bisognerebbe liberarsi dalla becera convinzione che comprendere la Sicilia equivalga a viverci.

Per comprendere la Sicilia bisogna conoscere Palermo, anzi, forse per comprendere l’umanità bisognerebbe conoscere Palermo.

Palermo è un luogo selvaggio, che vive nel paradosso di una città di un mare solo supposto, rinnegato, che ti strappa a morsi tutto ciò che di poco democratico hai in corpo.

Dopo poche ore dal tuo ancoraggio in questo porto, inizi ad odiarla per la sua gente sguaiata, che urla e ti spintona sui mezzi pubblici.

Poi la ami, per gli stessi motivi.

Ed i sentimenti finiscono per alternarsi con un lasso di tempo tanto breve da non riconoscersi, sovrapporsi.

La si infama anche quando non è necessario, ma la si difende a costo della propria reputazione, da chi tenta di metterla in cattiva luce.

Perché Palermo è una madre, zoccola, che ti plasma, che non ha vergogna di essere bella anche quando è crudele.

E puoi pestare siringhe in viottoli percorsi da fanghi e "munnizza", ed avere le spalle coperte da mani di statue di stampo quasi berniniano e i pensieri sotto cupole dai colori tanto brillanti da sembrare irreali.

Vivere a Palermo significa vivere per Palermo. Studiare a Palermo significa studiare per Palermo.

La caratteristica fondamentale di Palermo è l’autoreferenzialità: città che vive per se stessa, sempre, i cui abitanti riescono ad avere slanci vitali solo in nome dell’imminente, in cui il senso del “proprio” è tanto spiccato da annullare completamente quello del “comune”.

Vederla esteticamente, come un corpo vecchio, bislacco, ansimante ma ancora vivo, suona quasi come un paradosso.

Ma a darle sussistenza, a concederle questo limbo eterno, è proprio questo essere ingorda, buco nero attrattivo per tutto ciò che la circonda: risorse umane, materiali, negate al resto e fagocitate voracemente da un luogo che non ne trarrà profitto oltre la propria inspiegabile esistenza, ma che riesce a trasformare in non-essenza tutto ciò del quale risulta appendice.

E quando per la prima volta ti capita di sentire qualche bambino appellare un proprio coetaneo, con un tono di certo non conciliante, “coinnutu e sbirro”, non puoi fare altro che indignarti.

Ma l’indignazione passa quando ti rendi conto che Palermo non ha padroni, rifugge qualsiasi autorità che non sia autoctona.

Palermo è l’unica padrona di Palermo.

E quando autorevolissime voci spiegano che questa chiusura patologica nei confronti dell’esterno ha delle ragioni orografiche o è causata dal susseguirsi spasmodico di dominazioni così eterogenee, ci si dimentica sempre del fatto che Palermo è vittima ma anche carnefice, che esiste come organismo autonomo in cui i giochi sono sempre diversi dal resto del mondo, dell’Italia e perfino della Sicilia.

Palermo è stata dominata solo apparentemente, perché in virtù della propria mollezza, del “fare ciò che fa bene solo a me”, ha sempre utilizzato quasi in maniera beffarda chi ha cercato di imbrigliarla.

E quando si tenta di spiegare il perché della chiusura del centro storico nei confronti del mare spesso si risale alla matrice parlando di errori urbanistici.

Ma Palermo è le sue bancarelle di “stigghiola” lerce agli angoli delle strade: un luogo che si nutre delle viscere delle cose, delle culture, degli uomini, fino alle strenue conseguenze.

Il suo centro storico non è che questo.

Vivere a Palermo per chi non è di Palermo è vivere un luogo angusto, che non ti culla mai ma che innesca strani meccanismi di appartenenza.

Sembra sempre di essere sull’orlo della guerra civile eppure, in tutto questo caos, esiste un equilibrio, che spogliandosi da ogni giudizio morale, risulta perfino intimamente ed esteticamente avvenente.

Smetti di amare Palermo per le sue cose migliori, in nome delle peggiori.

E non saranno quindi i pinnacoli della Cattedrale, le cupolette, ad attrarti, ma il lerciume che copre i palazzi quasi fino all’orlo, che li snatura, li rende cadaverici; l’odore forte di arancine e sfincioni; gli sventramenti e il chiasso dei mercati.

Palermo, amata come si amavano gli uomini quando ancora si concedeva loro di essere vecchi ed imperfetti: perdutamente.


“Palermo è sontuosa e oscena. Palermo è come Nuova Delhi, con le regge favolose dei maharajà e i corpi agonizzanti dei paria ai margini dei viali. Palermo è come Il Cairo, con la selva dei grattacieli e giardini in mezzo ai quali si insinuano putridi geroglifici di baracche. Palermo è come tutte le capitali di quei popoli che non riuscirono mai ad essere nazioni. A Palermo la corruzione è fisica, tangibile ed estetica: una bellissima donna, sfatta, gonfia di umori guasti, le unghie nere, e però egualmente, arcanamente bella. Palermo è la storia della Sicilia, tutte le viltà e tutti gli eroismi, le disperazioni, i furori, le sconfitte, le ribellioni. Palermo è la Spagna, i Mori, gli Svevi, gli Arabi, i Normanni, gli Angioini, non c'è altro luogo che sia Sicilia come Palermo, eppure Palermo non è amata dai siciliani. Gli occidentali dell'isola si assoggettano perché non possono altrimenti, si riconoscono sudditi ma non vorrebbero mai esserne cittadini. Gli orientali invece dicono addirittura di essere di un'altra razza: quelli sicani e noi invece siculi.” (Giuseppe Fava)

2010-01-13

Partitura incompiuta: morte e assenza(o assenza della morte)

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Di fare riferimenti bibliografici certosini frega cazzi,sia chiaro. Comunque capita di affastellare riflessioni intorno a testi scritti da storici olandesi con uno spiccato temperamento artistico e romanzieri americani con sopite velleità saggistiche. Detto questo parlare di morte ormai appare relativamente semplice. Anche perché nella maggior parte dei casi si disquisisce sulla Morte, quella con la M maiuscola, ma si evita accuratamente qualsiasi riferimento al morto; si fanno i conti senza l'oste insomma. Perché questa rimozione del macabro?Eppure il macabro riconduce immediatamente all'essenza del rapporto emotivo che si instaura con la carne muta che giace immobile di fronte a chi osserva: il senso di laido terrore che deriva dal realizzare quanto essa sia la rappresentazione allegorica, l'icona di ciò che presto, inesorabilmente, prenderà anche le sembianze di chi assiste. L'empatia rispetto all'attuazione della sorte altrui che poi è di chiunque, è ingiustificata in mancanza di un legame affettivo, o, quantomeno, qualcosa di secondario. C'è molto di inspiegato in questa sempre più vertiginosa, rapida deriva irenica in cui la realtà smette di presentarsi nella sua natura essenzialmente conflittuale, in cui la violenza è sempre un qualcosa che rimane appiccicato su di un non ben identificato fondale lercio e li vi rimane. Huzinga descrive come nel medioevo il senso del macabro pervadesse ogni istante dell'esistenza umana. Questa presenza effettiva era veicolata principalmente dall'iconografia del tempo; quella della "danza macabra" dominò la scena e l'immaginario collettivo per molti decenni, una rappresentazione tragica del futuro imminente, della transitorietà dell'esistenza, del "memento mori": nella danza macabra non si balla con la Morte, bensì col morto ovvero con se stessi, nella nuda immagine col proprio cadavere decomposto. Il macabro e quindi la visione del tragico monopolizza tutto, è attraversato dal senso religioso, alimentato dal contatto quotidiano con la realtà della morte violenta, dalle epidemie,dalla fame ecc. Adesso si rimane inerti di fronte a questo processo di rimozione in cui tutto ciò diventa "non mostrabile", il che non significa affato che il sordido sia stato debellato; si può ancora farne la conoscenza diventando mercenari(perché ormai si sa,la guerrà sta agli specialisti come gli interventi a cuore aperto ai chirurghi) o assistendo ad una corrida. La corrida è quel che rimane della danza macabra, di quel sentimento medievale, tragico che caratterizza la vita e dello stretto legame che intrattiene con la morte nella sua dimensione materiale, immediata, fatta di ossa sudice, carni putrefatte e bellezza sfumata, svanita, definitivamente perduta. La rappresentazione del macabro ha a che vedere con l'interpretazione macilenta della corrida nei suoi aspetti più visibili, cruenti, dagli sbudellamenti, al sangue col suo scorrere lento, al bianco opaco delle ossa messe in mostra attraverso le ferite a cui il combattimento violento, autentico, inevitabilmente da imparagonabile risalto. La tragedia passa dall'immagine macabra perché, come riflette Huizinga, la fugacità della bellezza e della vita che la alimenta, non può arrestarsi alla melanconia per la consapevolezza della sua inevitabile fine,ma deve proseguire, irrimediabilmente, fino a giungere all'edificazione del suo orrore più pieno. In ragione di ciò la corrida è una tragedia in 3 atti, l'ultimo dei quali, quello dello scontro mortale, vede l'uomo e il toro fronteggiarsi in un turbinio di agire fisico e presenza spiriturale che, quando si manifesta nella sua espressione migliore, più completa, innesca quello strano incrocio di essenze alchemiche ed abilità pratica che da vita all'arte. C'è un filo rosso che unisce la religiosità della danza macabra e del suo "memento mori" a quella tutta particolare della "suerte" della danza della morte che si consuma all'interno dell'arena, ovvero quel complesso di azioni sempre identiche, rituali che fanno parte del suo truculento cerimoniale. E anche il lagame tra rappresentazione e chi osserva è colmo di quel sentire "desecolarizzato" dell'uomo di Huizinga; quell'uomo che si accosta di fronte all'immagine del proprio scheletro danzante con la medesima esaltazione religiosa, sovrannaturale che contraddistingue parimenti il matador nel suo dare la morte al toro dopo averci duettato lungamente con la "muleta", assegnandosi questo attributo divino che lo lascia li, senza soddisfazione estetica alcuna, svuotato e triste, esattamente come chi assiste, dapprima invasato, all'evento.
Il problema della rimozione del macabro è qualcosa di intrinsecamente legato al processo di lenta erosione di tutto ciò che ha a che vedere con la percezione del senso profondo della tragedia, di cui esso è aspetto fondamentale. L'incapacità di concepire la rappresentazione del tragico nella sua interezza, il che presuppone un non essere più in grado di andare oltre una sensazione della materialità in quanto dato visibile, ovvero cedere all'inganno e all'orrore dell'elemento macabro e isolarlo rispetto al tutto, perché a parte le briciole di pane che cadono accanto non esiste nulla. Questa concezione di materialità completamente privata di un'idea del magico NELLE cose è alla base del rifiuto dell'immagine della morte fisica, il suo aspetto concreto. Grattata via la crosta non rimane altro che il vuoto.

"La corrida non è uno sport nel senso anglosassone della parola, vale a dire non è una gara o un tentativo di gara tra un toro e un uomo. È piuttosto una tragedia; la morte del toro, che è recitata, più o meno bene, dal toro e dall'uomo insieme e in cui c'è pericolo per l'uomo ma morte sicura per l'animale."(Ernest Hemingway*)


Johan Huizinga
Morte e Religione nel Medioevo
Bur,Milano,2009,130 p.

*Ernest Hemingway
Morte nel pomeriggio
Mondadori,Milano,2009,298 p.

2010-01-10

Il paese è reale

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“Mi chiamo Effe, e vengo dal futuro”, fu quello che disse o, perlomeno, fu quello che Rudy riuscì a tradurre di quella lingua così ispida e spigolosa con cui quel ragazzo, sedicente e quanto mai strano viaggiatore del tempo, si esprimeva.
Era piombato nel suo giardino una notte di Aprile piuttosto calda e limpida, mentre Rudy se ne stava supina sul lettone della sua stanza a guardare da uno spiraglio sotto la coperta le stelle nel cielo.

Dalla finestra aperta era ricaduta una cascata di luce abbacinante, un tonfo sordo, e poi di nuovo il silenzio notturno, interrotto solo dal quieto bubolare di qualche gufo, per nulla turbato dall'accaduto.
Rudy pensò d'aver avuto un'allucinazione, un tiro mancino della sua menticina stanca, finché non scese nel giardino, passando dalla porticina laterale della cucina - facendo attenzione a non farla cigolare troppo per non svegliare i genitori - e assistere con i suoi occhi ad una scena che poteva essere tratta da un qualche film di fantascienza.
Proprio accanto al vecchio castagno ricurvo che Rudy amava chiamare Bitonto, vicino all'ispida siepe delimitante il giardino e che d'estate diveniva il soggetto delle sperimentazioni topiarie del nonno, giaceva una sfera rivestita da placche esagonali embricate e fumanti.
Da un'apertura tondeggiante sbucò fuori un esserino lungo e pallido, che poteva essere benissimo un alieno piuttosto che un essere umano.
Non avendo un'esatta idea di come un essere extraterreste potesse apparire e, dato che era abbastanza leggero da poter essere sollevato con le sue deboli braccia da quindicenne, Rudy lo trasportò in silenzio nel solaio, salendo per le scalette a chiocciola dello stanzino accanto camera sua.
Il giorno dopo, quella che sembrava la strana caricatura di un'astronave era completamente scomparsa, lasciando solo un buco enorme nel giardinetto ordinato, il frutto delle fatiche indefesse e quantomai ostinate della madre che, vedendo rovinato il lavoro di Dio solo sa quanti mesi, corse il rischio di svenire in preda a un collasso.
Per fortuna, la faccenda s'aggiustò nel modo meno complicato possibile, e tutta la questione del buco nel giardino fu archiviata come: “incidente casuale causato dalla caduta di qualche detrito spaziale”. E questo era quanto.
Approfittando della situazione, facendo ben attenzione a non far trapelare nessuna informazione riguardo la presenza di un possibile alieno nella soffitta, e sperando che quel piccolo essere non provocasse qualche altro disastro colossale causando così l'annientamento dell'edificio dove abitavano, Rudy iniziò la conoscenza del viaggiatore del tempo.
Innanzitutto, il sedicente alieno parlava una lingua molto strana, quasi priva di vocali, rimpiazzate da una teoria di consonanti aguzze e difficili da pronunciare, roba del tipo: “vng dl ftrs”, oppure, “dv m trvs”, tutte espresse con lo stesso monotono tono di voce, come se non fossero state previste le frasi affermative, esclamative o interrogative durante la formazione del linguaggio.
Scoprì che non rifiutava il cibo che lei riusciva a procurargli da tavola o sottraendolo dal pasto destinato al gatto, che fu costretto a intraprendere un forzato periodo di dieta di cui non fu molto entusiasta. L'alieno mangiava con un vivo appetito, tanto che a Rudy sembrò davvero affamato, come se non mangiasse da chissà quanto tempo.
Armata di un vecchio diario del millenovecentonovantasei, preso in prestito da una catasta di agende – tutte vecchissime - che il padre recuperava dagli scarti dell'ufficio e che, per un motivo o per un altro, si rifiutava di gettare nell'immondizia, e di una nutrita fila di matite, la ragazza iniziò a comporre la sua personalissima Stele di Rosetta da usare come chiave di interpretazione di quella strana lingua.
L'alieno si comportava piuttosto bene, rimanendo a dormire tutto il giorno, mangiando quando riceveva del cibo e cercando di dialogare con la sua strana benefattrice. In qualche modo aveva capito che la ragazza cercava di trovare un senso in ciò che diceva, e così s'impegnava a ripetere le frasi o a scandirle meglio che poteva, anche se non era cosa facile nemmeno per lui.
Man mano che Rudy si spingeva avanti nei meandri di quello strano linguaggio, maggiori similarità notava con la sua lingua: sembrava una versione ultra-impoverita dell'italiano, con una mancanza quasi totale delle vocali e di alcune strutture grammaticali di base.
Capito il meccanismo, azzardò un tentativo di comunicazione, domandando al viaggiatore da dove venisse; dalla bocca le uscì un incidente sonoro che sembrava più lo stridere della punta magnetica su un disco di vinile quando si sposta la testina repentinamente, più che una frase avente senso compiuto. Ammesso che ne avesse uno.
L'esserino le rispose che in realtà lui era un essere umano, e che era riuscito a fuggire da quello che pensava fosse il futuro, trovando quella strana macchina del tempo custodita nell'edificio degli Uomini Vecchi. Avendo compreso che la ragazza capiva – più o meno – ciò che diceva, decise di raccontarle la storia del mondo da cui veniva.
Rudy, affascinata da quell'essere intento a narrare il suo racconto con quei termini incomprensibili, stette in silenzio ad ascoltare, mentre un leggero timore si manifestava educatamente nel suo cuore.
L'essere le disse che la sua epoca, secondo i suoi calcoli, si trovava in un futuro lontano circa un secolo. Le raccontava di un mondo molto povero, in cui gli uomini raramente riuscivano ad avere interazioni fisiche, e trascorrevano tutti gran parte del tempo davanti a una televisione specifica, poiché esistevano vari tipi di tv. Ognuna aveva un compito specifico.
Nel suo futuro non esistevano scuole, però esistevano più comode tv-educative, che permettevano ai ragazzi di istruirsi con facilità: non c'erano edifici nei quali recarsi per seguire le lezioni, né professori, né compagni di banco: c'era solo una televisione speciale dotata di un programma centralizzato chiamato ASEV che provvedeva – in modo del tutto automatizzato – a insegnare la storia, la tecnica e la neo-religione. L'italiano era escluso dall'insegnamento, poiché, a detta di tutti, era naturale apprenderlo dalla Televisione o dalla gente per strada, e i giovani non necessitavano di pratica aggiuntiva per farlo loro.
Poi c'era la Televisione normale, che serviva da guida morale per la gente. C'erano dei programmi ti facevano vedere come vestire, come parlare, come mangiare, come dormire, come lavarti, e niente di questo era d'obbligo, però era consigliabile farlo se volevi essere un buon cittadino.
In ogni abitazione erano installati degli array coordinati di telecamere, per permettere a chiunque di poter osservare la vita degli altri e la privacy era completamente divenuta di pubblico dominio. Era normale per ogni persona passare tutti i pomeriggi davanti alla Grande Televisione, per guardare nella casa qualcun'altro.
Solitamente c'era ben poco da guardare, poiché il soggetto delle osservazioni altrui era, molto spesso, osservatore anch'egli di altre case; tuttavia la gente trovava un morboso e quantomai affascinante piacere nello scrutare le vite degli altri.
Il divertimento comune era sfrecciare per le lunghe autostrade che ricoprivano il paese a bordo di veicoli automatizzati che raggiungevano altissime velocità oppure recarsi in edifici molto grandi dove, da impianti sonori potentissimi, veniva trasmesso un suono basso e ripetitivo che durava tutta la notte. Molti morivano a causa degli attacchi epilettici, però tutto sommato era divertentissimo.
Tutto quello che avrebbero potuto svolgere veniva già svolto da un programma apposito, al punto che lo stesso pensare era divenuto oltremodo faticoso, e quindi s'era escogitato di automatizzare la cosa. Nessuno riusciva a quantificare la propria consistenza fisica, poiché mancava la coscienza immateriale della propria mente.
Molto presto l'uomo perse la capacità di formarsi un'identità propria, avendo abolito i contatti sociali, la possibilità di leggere e scrivere (essere analfabeti era ritenuta una qualità considerevole nella sua futura pseudo-società), di avere un'istruzione o di compiere qualche azione che fosse dettata dal proprio libero arbitrio.
Rudy ascoltava quelle rivelazioni e il proprio timore si trasformava prima in una mestizia profonda, causata dalla compassione per quello che sarebbero divenuti, e poi in vero e proprio terrore. Ci si stava trascinando in una morte mentale di dimensioni titaniche: era come se l'uomo avesse smesso di condurre guerre fisiche per dedicarsi all'annientamento della mente. Non c'erano torture, né dolore, in quella realtà, ma un gran mucchio di nulla che divorava il mondo come nemmeno una bomba atomica avrebbe mai saputo fare.
Ma la cosa che faceva più paura di tutte, ciò che ghermiva e intirizziva il cuore di Rudy al punto tale che temesse di perdere la vita nell'instante in cui ascoltava quelle parole, come se fossero imbevute di arsenico, la cosa che più la spaventava era che l'uomo, in quella spasmodica realtà, sembrava felice.
Felice di aver finalmente smesso di pensare.

2010-01-04

L'ostacolo della diversità

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E' estremamente preoccupante un atteggiamento che la nostra politica(o, per lo meno, certa nostra politica) ha fatto proprio nel corso degli ultimi anni, ossia una tendenza sempre più spiccata a mostrarsi agli elettori sotto l'immagine del “padre affettuoso” che difende i propri figli dall'uomo nero(e, fuor di metafora, non certo quello che ti tiene un anno intero). Sempre più lontani da un'idea di politica dinamica, costruita sulle risorse di un continuo(anche violento) scontro dialettico, si approda sull'isola dell'Amore, della coesione politica, l'isola felice, insomma, in cui tutti sono d'accordo quando si tratta di fare riforme condivise, e nessuno si cura più di sostenere un'ideologia anche nei suoi elementi irriducibili al confronto e alla relativizzazione. E' un fenomeno pienamente riconducibile a quella monocultura che fa da padrona nelle nostre(nostre?) TV, che rende tutti i TG dei diversi canali più o meno uguali, e lascia come unica fonte di variazione e sorpresa quella che sembra essere una gara di stupidità tra i programmi televisivi in prima serata.

Proprio coerentemente con questa tendenza alla sproletarizzazione del brutto, che si erge a icona distintiva della nostra odierna cultura “di massa”, sta l'idea che la politica debba abbassare i toni, che, per essere precisi, è lecito alzare i toni solo per condannare chi alza i toni. Eccolo l'apice del brutto: impedire a chi prova disgusto di esprimerlo. Credete sia possibile esprimere il proprio disgusto con tono pacato e flemmatico? Io no. Questa fastidiosa insistenza sull'Amore, ossia questa poderosa campagna propagandistica in favore della monocultura, della monoideologia, insomma della monostupidità collettiva è un ulteriore passo verso la materializzazione di quello spettro del nostro passato che è il monopartito.

Fatta questa premessa, l'argomento principale di questo intervento consta di alcune considerazioni su un problema già anticipato in qualche modo nelle prime righe, e che si rispecchia fedelmente in questa tirannia dell'Unico alla quale giornalmente gli italiani sono sottoposti: il problema dell'integrazione degli “stranieri”.

Buona parte delle manifestazioni più splendenti dell'ingegno umano le abbiamo ricevute da popoli che si distinguevano dagli altri per una varietà così accentuata da risolversi in una sorta di intrinseca diversità da se stessi. A scopo meramente paradigmatico, l'alba della filosofia e della letteratura occidentali vede la luce nella Grecia dell'VIII/VII secolo a.Cr., accompagnata ad un impressionante sviluppo in discipline come la matematica, l'astronomia, la medicina. La Grecia di quel periodo era una fiorente civiltà commerciale, che estendeva i propri commerci su gran parte delle coste del Meditarraneo, a contatto continuo con i popoli più disparati: dagli egizi ai fenici, fino in Mesopotamia. La sua struttura stessa di Stato suddiviso in tante piccole, autonome città-Stato ne faceva un campione eccellente della capacità dell'uomo di trovare fondamentali linee di coesione anche tra gruppi divisi, per altri versi, da differenti sistemi di governo, differenti divinità tutelari, differenti modi di parlare. E se è vero che nella riflessione politica di Aristotele la parola barbaros(“straniero”) e la parola dulos(“schiavo”) vengono quasi a coincidere – per motivi storico-economici, molto meno, invece, ideologici- è anche vero che lo stesso filosofo di Stagira riconosce nella sua “Politica” una dignità agli schiavi in quanto esseri umani(affermazione che, per quei tempi, ha una portata quasi rivoluzionaria). Del resto, a testimoniare l'apertura dei greci(ammesso che di essi si possa parlare come di un tutto armonico e coerente) nei confronti dei popoli “altri” stanno l'interesse inesauribile per i particolari etnografici dall'aria “esotica” che si può riscontrare attraverso la lettura degli storici più famosi(Senofonte, Polibio, Plutarco), da una parte, dall'altra l'importanza fondamentale attribuita da tutta quanta la grecità, fino all'età classica, al valore irrinunciabile dell'ospitalità: l'ospite è sacro e in quanto tale va rispettato.

Qualcuno potrebbe dire che “va bene rispettare lo straniero, ma concedergli addirittura una componente sacrale è un'esagerazione”. Tuttavia, quello stesso conglomerato culturale che prende il nome di “identità”(che tanto è inneggiata da chi, lo straniero, piuttosto che accoglierlo, preferisce cacciarlo) non può essere tenuto vitale se non attraverso un continuo confronto con il “diverso”, che renda possibile riconoscere chiaramente quali siano i confini del proprio modo di concepire e di vivere la vita, per quali peculiarità esso si caratterizzi e acquisti una marca che lo fa percepire coscientemente come “proprio”: è per questo che, se è lecito concedere uno statuto di sacralità alle nostre tradizioni, ai nostri costumi, alla nostra storia, per il fatto che essi ci permettono di riconoscerci l'un l'altro e di poter usare un “noi” traboccante di significati non meramente istituzionali, finisce per essere doveroso – è un fatto di coerenza e fedeltà a se stessi – concedere altrettanta sacralità a chi, questa nostra peculiarità, ci aiuta a riconoscerla, e soprattutto a storicizzarla, conoscerne i limiti e i vantaggi. Questo, infatti, è un punto di vista utile in senso conservativo, è vero(in quanto concerne il mantenere vigoroso il nostro senso di appartenenza), ma anche in senso evolutivo: come se non mediante il confronto potremmo riuscire a capire se, e in tal caso dove, sbagliamo? O semplicemente venire a conoscenza di un'ottica diversa, di un'alternativa, di una di quelle risorse che non sono certo di peso ad un paese in crisi, ossia la varietà?

La ricerca della diversità può essere condotta in due versi: c'è una diversità diacronica che è quella che un popolo rappresenta a se stesso, ossia le fasi storiche che ha attraversato prima di diventare qual è, ciò di cui si occupano specialmente le discipline umanistiche – e a tal proposito indovina Alfonso Traina, filologo classico di fama mondiale, quando scrive “Che cos'è la cultura se non la coscienza della propria storicità?” -; e c'è una diversità, per così dire, sincronica che consiste nelle inevitabili(e spesso molto rilevanti) differenze che all'interno di una “macro-cultura” sono segnate dalle varie “micro-culture” che la arricchiscono e ne fanno la base portante, e ancor di più nelle grandi(ma saranno poi così grandi?) linee di discrimine che la separano da culture “altre”, popoli “altri”, mondi “altri”.


Tuttavia, se la nociva soppressione della libertà di parola, in una situazione in cui le opinioni comunemente accettate sono vere, si limitasse a lasciare gli uomini nell'ignoranza dei fondamenti di queste opinioni, la si potrebbe considerare un male intellettuale ma non morale, che non diminuisce la validità delle opinioni in quanto elementi che influiscono sul carattere. Nella realtà però la mancanza di discussione non solo fa dimenticare i fondamenti di un'opinione, ma il suo stesso significato. Le parole che la esprimono non suggeriscono più idee, o suggeriscono solo una piccola parte di quelle che comunicavano originariamente. Al posto di un concetto vigoroso e di una convinzione viva, restano solo poche frasi meccanicamente apprese; oppure, se resta qualcosa del significato, è solo l'involucro, e la profonda essenza si è persa. Non si studierà e mediterà mai a sufficienza il grande capitolo della storia umana che questo fenomeno costituisce.”

John Stuart Mill, “Saggio sulla libertà”, Milano, il Saggiatore, 1981, p. 45


Lasciare parlare il diverso. E se non parla, interrogarlo. Esplorarlo, comprenderlo, uscire da se stessi, immedesimarsi, per rientrare più forti, magari più convinti, ma di certo più aperti e più coscienti.


2010-01-01

Educare alla sapienza (e alle emozioni )

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“Sarebbe troppo lungo passare in rassegna tutti quelli che hanno trascorso la loro esistenza giocando a dadi o a palla, o abbronzandosi il corpo al sole. Non sono oziosi costoro, con piaceri tanto esigenti. Non vi è alcun dubbio, d’altronde, che si danno un gran daffare per nulla quei romani – e sono ormai tanti – impegnati in studi eruditi e del tutto inutili. Un tempo era una mania dei Greci , quella di cercare quanti marinai avesse avuto Ulisse; o se è stata scritta per prima l’Iliade o l’Odissea e se siano entrambe del medesimo autore; e via con altre curiosità del genere che, se le tieni solo per te, non giovano alla tua maturazione interiore, mentre se ne fai sfoggio non ti fanno sembrare dotto, bensì soltanto noioso. Anche i romani sono stati presi dalla sterile passione per le ricerce futili.” (Seneca, Dialoghi morali,Einaudi, 2005 p. 351 )

Seneca se la prende con i filologi Alessandrini del III a. C., un gruppo di intelettuali che si ponevano, nella grande biblioteca egizia, queste (e molte altre) domande sulle opere e sugli autori greci giunti sotto le loro mani in forma di papiro. La critica di Seneca è una critica alla sterilità della passione (in latino inane studium: letteralmente dedizione vuota) esercitata da questi intellettuali verso studi che non mirano ad altro se non ad una erudizione, nel migliore dei casi fine a se stessa, nel peggiore noiosa per gli altri. Agli Alessandrini, e anche ai Romani che avevano cominciato anche loro a praticare studi a carattere filologico ed erudito va la critica di Seneca. Alla manifesta inutilità del sapere che Curio Dentato, vincitore di Pirro nel 275, spiegò, per la prima volta a Roma, alcuni elefanti nel suo trionfo, Seneca oppone, per raggiungere la serenità, la Sapientia, che trascende le difficoltose vie dell’impotenza umana (humanae imbecillitatis angustias) e ci consente di spaziare attraverso i secoli e i tempi. “Dialogare con Socrate, dubitare con Carneade, goderci la vita con Epicuro, dominare con gli Stoici la natura umana, superarla con i Cinici”( Seneca op. Cit. p. 359) , non i particolari eruditi della grammatica e dalla filologia, possono portare ad una educazione morale dell’individuo. Parlare con loro che hanno parlato come uomini agli uomini, loro che prima di noi hanno dato dei consigli, offerto delle riflessioni, è fare un incontro con chi ci lascerà più felice, con qualcuno con cui potremo parlare notte e giorno senza andare via a mani vuote: “ Nessuno di costoro ti spingerà alla morte, ma tutti ti insegneranno ad affrontarla; nessuno sciuperà i tuoi anni, anzi aggiungeranno i loro ai tuoi. Non dovrai temere alcun pericolo o rischio dalla loro conversazione e amicizia; e non ti costerà caro onorarli. Da essi otterrai tutto ciò che vorrai; perchè non ti impediranno certo di fare tuo quanto più desideri.” (Seneca op. Cit. p. 361)

L’unico modo per conoscere le civiltà a noi così distanti nel tempo è uno studio filologico e storico che sia il più minuzioso possibile, è vero. Persino per conoscere Seneca dobbiamo gettarci in certosini studi di stilistica, grammatica, filosofia morale. Gli elefanti di Curio Dentato, in quest’ottica, possono fornire importanti informazioni storiche. Le domande su Omero che, ancòra oggi, a più di 2000 anni di distanza dagli Alessandrini, gli studiosi si pongono ci potrebbero permettere di capire un po’ meglio il perchè della genesi di una così grande opera, di contestualizzarla meglio, di gettare luce sull’ombra, è vero. Ma lo scopo finale è il contenuto; dopo la ricostruzione, attenta, adeguata, filologica, storica, rispondente alle notizie epigrafiche e storiche che possediamo, c’è l’opera. L’opera che formi l’essere umano, che abbia potere formativo ed educativo sull’individuo, nei suoi apparati psichici e cognitivi. Un passo avanti. I nostri professori devono imparare ad educare all’emozioni: oltre i volti disattenti e distratti dei ragazzi, icona del nichilismo giovanile. Nelle loro menti bisogna far nascere, in ognuno di loro preso individualmente, nella sua esclusività e irripetibilità, un metodo per canalizzare la miriade di imput provenienti dal mondo in una serena conoscenza e sistematizzazione delle sensazioni, delle conoscenze, delle emozioni. Questo deve essere un fine, uno tra i più importanti, della letteratura nella nostra società.

“ I professori entrano in classe. Ma li vedono in faccia questi ragazzi? Li guardano uno ad uno? Li chiamano per nome? O solo per cognome quando devono essere interrogati? Sanno che la generazione di giovani con cui oggi hanno a che fare, non per colpa dei professori ma a causa delle rapidissime trasformazioni economiche, sociali e tecnologiche che li coinvolgono, sono di una fragilità emotiva impressionante? ... Ma chi doveva insegnare a questi ragazzi a parlare, a utilizzare quell’abbondante letteratura a loro disposizione che insegna come un’emozione trova forma di parola, di poesia e di sublimazione dell’amore e del dolore? A quell’età la letteratura o è educazione alle emozioni, o altrimenti vale la pena di gettarla, e, come già si sta facendo, piazzare tutti gli studenti davanti a un computer e renderli efficienti in questa pratica visivo manuale.” (Umberto Galimberti. L'ospite inquietante. Rizzoli, Milano 2007. Pag. 100)

La storia della letteratura, della filosofia non si occupino della crescita cognitiva, o meglio, non solo della crescita cognitiva e culturale, ma anche di quella emotiva. Se nelle università, ai futuri professori, sono insegnate solo tecniche e non c’è spazio per educarsi alle emozioni e ai significati profondi e umani della letteratura, come pretendiamo di avere dei professori capaci di imparare a insegnare ai ragazzi che la strumentazione del liceo (grammatica, storia) è funzionale a un bene superiore, essere cittadini, essere onesti, capire il mondo, capire se stessi?


Stop ai tecnicismi, stop al non spiegare perchè si studia cosa si studia, stop a non parlare mai del fine e sempre del mezzo. Non rendetemi una capra. Questo sistema d-istruzione spreca potenzialità ogni giorno, educa ceffi e cittadine civettuole e spreca potenziali cittadini critico-razionali. Stanchi di uno stipendo da fame, stipati in aule per topi, gli insegnanti Italiani, precari nel lavoro e nelle conoscenze, brancolano nel buio non capendo la generazione del Grande Fratello, di Facebook, dell’alcool a 13 e del sesso a 12. Credono che il loro lavoro si limiti a spiegare Galileo e l’attrazione modale a gente che a 15 anni di attrazione ha solo quella per la compagna di banco e in un turbinio emotivo confuso. Il professore sia canalizzatore di emozioni, la letteratura diventi tubo catodico concorrenziale alla merda di reality show e del talk show. Un tubo capace di bucare cuori e menti e di creare cervelli e non voragini mentali.

P.S. alle università italiane: I maestri e i professori che formate ciechi come Splinter restino nelle fognature a mangiare pizza.