2010-11-24

Lettera dell'uomo nato sul muro di Berlino

0 commenti


Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.

Cesare Pavese

Caro lettore,

non si nasce al confine. Al confine si muore soltanto. Per l'appunto è una vita che muoio, e che sono stanco, io Georg Friedlander di nascita a dir poco bastarda. Due mondi m'han fatto, son nato a Berlino, sul muro che accolse i miei pianti, e ne infranse di altri a non numerarli.

Sono affetto da uno strabismo dei sensi: birra o vino non fa differenza, non conosco il valore del rosso o del nero, tantomeno il turchino, figurarsi a coprirlo di stelle e di strisce.

Mi hanno insignito dell'accolitato del plutocratico capital-consumismo d'età postmoderna: non a caso in un culdisacco ier l'altro un polacco ha cavato da un pacco un pregiato salvatacco. Al che, con distacco, scandisco: “Perbacco!”. E che faccio? Stacco un assegno, lo compro, lo insacco, lo vestirò sul colbacco.

Nondimeno mio nonno è un cosacco.

Quando nasci su un confine è come nascere al centro della terra, aggrappato sotto 'l pelame di Lucifero, che mai da te non fia diviso. Quando nasci su un confine non hai un dove, né un quando: sei insieme una teoria mai pensata e una prassi mancata, sei un teatro senza poltrone, solo palco ed attori. Sei meno che un cane, perché non hai il pedigree. Sei antico come le montagne, duro e freddo e inorganico, ci sei da sempre e mai ci sei stato.

Mi prendo la briga di scriverti, lettore, perché anche tu – forse non lo sai – sei nato al confine. Quando le barriere crollano, tutto il mondo è frontiera. Io ti vedo, so chi sei: anche tu, come me, sei inorganico. Sei polvere tritata e servita a cubetti. Sei il dado Knorr della globalizzazione.

Anche tu, come me, non hai casa, né patria, né tempo. Sei fatto di ossa e sudore, la tua voce parla tintinnio di monete e ticchettio d'orologi, tace campane e memorie lontane.

Anche tu sei nato su un muro, ma senza graffiti, né scritte, né segno alcuno. Anche tu, come me, se non ti fermi e rifletti, passerai via, senza infamia e senza lode. Anche tu, come me, come gli altri, come tutti: c'è un “come” che incalza, rovina e annienta le rovine. C'è un numero che ti rende uguale agli altri: anche tu, come loro, infelice.

E non c'è colpa più grave che l'essere infelici.

Scava nella memoria dei luoghi e delle persone e dai luce ad un senso più sincero del tuo essere al mondo. Sporcati. Voglio vedere le tue mani sanguinare per recuperare quel senso da un tumulo di ingiustizia ed ipocrisia. Tu che puoi, va' avanti, corri dove il muro finisce e buttati giù, nella selva.


Georg Friedlander

2010-11-08

Parole ambulanti

1 commenti
Un capogiro d’anestesia mi sveglia: seduta su sei gambe, la vertigine percorre il mio contorno.
Mi appoggio faticosamente a me, come ad un pentagramma la nota d’un violento jazz.
Riduco il corpo ad un ammasso di membra gonfie di vuoto, macchine per usi impropri; un apparente groviglio di materia in un balenante moto astratto, di luce e polvere riflessa.
Io, la testa allungata dentro la cassa, quadro introspettivo d’una maligna ironia, vedo l’anfratto dei motori vitali, avviluppati ed avvizziti sotto l’ordine d’un centro rococò.
Sospensione costante di quel che sarei, porto avanti un rocambolesco esperimento pittorico ed esistenziale, sfatato da un dolceamaro odore di respiro e desiderio di respirare ancora, desiderio di porre fine a questi gradi di lontananza, a questo barbarico miraggio, furia di scordar qualcosa d’indispensabile.
Eppure qui perdo solo me, nella carezza d’un ricordo, per non dimenticare la forma familiare di due guanti: turista del vuoto sbiadita dietro un sessanta gradi di pensieri imballati.
E chissà quando il vento mi restituirà agli adamantini fili d’un discorso verace, quando mi allontanerà dall’ingenua veste del mio ebete battesimo al moralismo!
Allora, non più devota ad una linea di sentenziosi sofismi, restituirò la libertà alla soffocata mia tirannia ed opprimerò quel buon senso rovinoso: affiderò la mia spietata condotta ai migliori sragionamenti animaleschi, e sarà delizioso, allora, non accorgermene.
Andrò al letto del tempo per urlargli addio: mi salverò dall’affannoso rincorrerlo.
Sarò senza percezioni, sarò l’ombra di me finalmente corsa lontano: ed io stessa correrò, pure azzoppata da un necessario cinismo della carne.
Ma persa dietro ad un atomo confuso tra falso e aspettazione, rimango qui.
Io sono ancora qui: nascosta dietro alla presunta scompostezza dei miei arti, ne assorbo la putrida essenza ed è delizioso, ora, non sentire altro.
Mi specchio in un dubbio d’esser solo di passaggio, e mi ubriaco di uno sfocato senso di me, risultato sillogistico d’una mezza esistenza.
Ebbra, vivo lentamente, e lentamente me ne torno via.

LAVINIA MANNELLI

2010-10-21

Tutti sotto terra

0 commenti

"Giro-girotondo, casca il mondo, casca la terra..."

Un buon odore di caffè tostato svolazzava sopra i lampioni della viuzza. Da qualche parte una signora tirava un secchio d'acqua scura come i fumi del carbone sull'acciottolato, e un vecchio contadino dalla fronte corrugata, seduto sul lettino foderato di mussola, inforcava il suo cappello di cuoio marrone. La saracinesca di un'antica falegnameria ammantata di segatura gracchiava dietro l'angolo, un giovane dai capelli laccati entrava nel bar facendo frusciare la tenda di perline dietro di se, e un signore chiudeva la porta di casa con un tonfo ovattato e faceva tintinnare le chiavi. Un carretto elettrico squinternato rombava scoppiettando sulla strada, alcuni motorini sfrecciavano zigzagando tra le auto ferme accanto ai marciapiedi per dialogare, e una donna salutava ammiccando con la propria voce squillante. Due ragazzini col grembiule che scendeva sino ai piedi saltellavano vivacemente, piegati all'indietro da ingombranti e variopinti zaini scolastici.

Giuseppe amava la vita di Sammartolomeo, la vita delle piccole cose. Così come il suo bisnonno, suo nonno, il padre e anche il fratello, Giuseppe aveva provato ad allontanarsi da quel luogo, tentando la carriera universitaria nella lontana Calerno e, come il bisnonno, il nonno, il padre e anche il fratello (con cui spartiva la stessa sorte) non era riuscito a vincere il richiamo magnetico della propria terra. Nelle strettezze inquinate dei quartieri cittadini, sotto i lampioni gialli, nella sporcizia ai margini delle strade, Giuseppe non sapeva dimensionarsi; preferiva la vastità dei campi coltivati a rape e fagioli, il sempiterno sussurro dei faggi frondosi, l'odore del pomodoro che sale su a grandi folate dalla pignatte di peltro della cucina, la televisione accesa che conversa con il vicolo, di sera. L'essenza dolciastra che circonfonde l'armadio di pioppo coi pannelli di compensato, il ritratto in bianco e nero dei nonni con la cornice ornata da grappoli di uva eburnea, il ferro da stiro verniciato sopra lo scaffale dello sgabuzzino, le trecce di cipolla e l'alcova di vimini dei limoni che salutano l'imbrunire, rivolti verso la costa dove il sole sprofonda, divenendo un puntino insignificante e vermiglio. Giuseppe amava il suo paese, ed era per questo che, quella mattina di fine Ottobre, serrando due lunghi fogli di plastica arrotolata sotto il braccio, camminava a passi veloci, facendo risuonare tacchi della scarpe di pelle lustra sullo scuro selciato di porfido. Nella notte era scesa un po' di guazza, e ogni dieci passi, Giuseppe era costretto a rivalutare il proprio equilibrio e moderare il passo, per evitare che l'enorme stazza del suo ventre lo facesse capitombolare a valle.
Quando ebbe raggiunto la sua destinazione – il palazzo comunale – s'affrettò a chiedere dove fosse l'assessore Sammatrice, sostenendo di aver premura di comunicare certi dati orografici di grande importanza. Una vecchia signora dagli occhialoni spinti sulla punta del naso, le unghie laccate di rosso e un seno davvero abbondante, gli rispose facendo squillare la sua voce: “Non lo so dov'è Alfredo, chiedi a Maria!”. Ma Maria non c'era, allora Giuseppe intercettò un consigliere della giunta, Francesco Delluomo, un uomo con dei grandi occhialoni scuri e una giacca di velluto a righe celesti, che elargiva arguzie con tono beffardo a due dipendenti divertiti.
“Dov'è Sammatrice? E dove può essere, è giù al bar. Portagli i miei saluti se lo vedi, digli che ancora aspetto quel caffè!”, esclamò Delluomo, roteando il suo dito come un manganello, e sollevando imberbi risate da parte dei dipendenti divertiti. Giuseppe si precipitò alla volta del bar sport, con l'affanno in gola e una certa preoccupazione. Aveva studiato giurisprudenza, ma era appassionato di geologia, meteorologia e studio del territorio, tant'è che s'era pure procurato dallo zio professore due grosse mappe del monticino dov'era abbarbicato il suo paese, sulle quali conduceva i propri studi. Le sue ultime rilevazioni sugli strati superficiali e sotterranei delle falde rocciose sui quali appoggiava la superficie di Bartolomeo, comparate ai risultati forniti dall'assessore all'ambiente, e le immediate previsioni temporalesche, facevano presagire dei grossi pericoli che, se non neutralizzati con opportuni e tempestivi interventi cautelativi, avrebbero condotto Sammartolomeo sull'orlo del disastro.
Giunto nei pressi del bar, Giuseppe attese qualche secondo all'entrata, sfregandosi nervosamente le mani. I suoi genitori non erano le persone adatte con cui parlare di politica, poiché tendevano a iper-classificare ogni componente della classe dirigente come “ladrone” o “assassino”, salvo poi onorare il migliore offerente col proprio voto durante le redditizie campagne elettorali. Per accaparrarsi qualche striminzita informazione sulle manovre politiche locali, quindi, Giuseppe ricorreva alle chiacchiere da bar di qualche amico e ai giornali regionali. L'assessore all'ambiente, quel Sammatrice che doveva incontrare, era stato delegato dal sindaco all'incarico di supervisionare i lavori di drenaggio, consolidamento e rifacimento di alcune zone considerate a rischio, circa due anni addietro. I lavori erano stati condotti da una ditta di origine calernese, intestata a un certo Giovanni Nibbia, e di cui Sammatrice era socio fiduciario. Alcune malelingue avevano messo in giro la voce che gran parte del denaro destinato a quegli interventi era stato assorbito dall'azienda di Sammatrice, culminando in un nulla di fatto, giacché alcune segnalazioni di sfaceli e frane erano presto giunte da alcuni contadini giù a valle. Poi, però, le voci erano state messe a tacere, e non se n'era saputo più nulla. Quegli interventi, considerava Giuseppe, erano vitali per la sicurezza del proprio territorio, e proprio per quel motivo gli era difficile credere che qualcuno potesse infischiarsi della tutela della propria casa e della propria famiglia.
Così, facendosi coraggio, Giuseppe entrò nel bar, scostando la tendina. L'assessore, assieme ad altri due consiglieri, se ne stava appoggiato al banco, accanto ai contenitori di plastica dei cornetti alla crema e al cioccolato, a sorseggiare il suo caffè nella tazzina Torrisi. Giuseppe lo avvicinò e gli chiese timidamente udienza.
– E tu chi sei? Il nipote di peppino? E cos'è che vuoi, fammi vedere, – esordì, con il tono allegro e l'inflessione dialettale che deformava gli accenti e raddoppiava le consonanti. Giuseppe aprì rapidamente le proprie carte, e lo informò sui punti in cui riteneva s'annidasse quel problema che avrebbe portato a un brutto disastro se non preventivato.
– Ah, ancora sapendo, – rispose l'assessore divertito, – Ma quello è già stato risolto. Tu non ti devi preoccupare. –

– Signor Sammatrice, io ho ragione di credere che la situazione sia ancora critica, per questo vorrei chiedere l'autorizzazione di corrispondere con la regione… –, propose Giuseppe.
– Ma la regione che? – lo interruppe Sammatrice in malo modo, sbattendo la tazzina di ceramica smaltata, – Tu non chiedi niente a nessuno! Ma chi sei? Tuo zio lo sa che sei qui? –
– Signore, è nell'interesse di tutti mettere al sicuro la propria casa, mi stupisco che lei se ne infischi così clamorosamente, e che nessuno se ne indigni! –, sbottò Giuseppe, che non seppe trattenere il proprio rancore.
– Ma come sarebbe a dire! –, esplose l'altro, – Tu adesso te ne vai, o io vi querelo tutti? Hai capito? Vi querelo tutti e vediamo se poi avete ancora voglia di parlare! –, continuò, tirandogli un gomito e cercando addirittura di aggredirlo con scomposte manate.
– Calmati Giovanni, lassulu peddiri, è carusu! –, cercarono di stemperare gli amici, trattenendolo, – E tu vatinni, prima ca ti pigghiamu a timpulati
Giuseppe indietreggiò di qualche passo, trattenendo le lacrime, non per la manata, né per la minaccia improvvisa, ma per l'orrore provato nel constatare che quella paura che albergava nella sua mente, il timore per la propria casa, i propri amici, la propria terra, era non solo fondato, ma anche personificato nella figura di Giovanni Sammatrice. Quell'uomo vile e turbolento che scalciava e sbraitava tra l'indifferenza e qualche risata, perché pure il bar era pieno, e nessuno faceva nulla. Giuseppe scappò via, logoro di livore e furente dalla rabbia. Risalendo per le viuzze che incrociavano il centro, l'odore del caffè non gli parve aromatico, il rombo del motorino gli rimbombò in testa e lo squillo delle risate di due anziane signore che confabulavano fittamente gli diede alla testa. Si chiedeva: “Come possono stare tutti fermi? Come possono fare finta di nulla, se è della propria vita che si parla? Come possono fare orecchie da mercante di fronte alla verità o farsi intimorire da un omuncolo che minaccia vili querele?”.
Rientrato a casa, decise di chiudersi nella sua stanza ad attendere il temporale, che già ruggiva all'orizzonte. Se quegli ignobili avevano decretato la fine della sua terra, con il giudizio inappellabile dell'indifferenza e della paura, allora lui sarebbe morto con lei. Si carcerò nella sua stanza, ritirato in un angolino, aspettando quella strepitosa tempesta che aveva calcolato, ascoltando il sibilo del vento rafforzarsi sino a divenire un boato, ignorando il mondo. Punendo l'indifferenza con altra l'indifferenza, la sua, più nitida e innocente.
Poi le nubi scure coprirono Sammartolomeo, vomitando acqua per tre lunghi anni di fila, ma alla cittadina bastarono tre giorni per scomparire sotto il peso da quelle frane annunciate da Giuseppe, dilaniata e spezzata dal peso della terra divenuta acqua, cancellata come una emula Pompei. I cittadini annegati nel fango, schiacciati dalle colpe di cui la montagna era solo funzione, e non oggetto.

Così, molti anni dopo, tutte le persone che avrebbero commemorato l'esistenza di Sammartolomeo, avrebbero additato con sconforto alle frane indicandole come la causa della sua scomparsa, ma Giuseppe, cadavere che ancora ribolliva di spirito in quelle terre, nel segreto oscuro della sua tomba d'argilla, avrebbe custodito per sempre il vero segreto della distruzione che aveva straziato il suo paese: l'indifferenza.

"...tutti giù per terra"

2010-10-14

491

1 commenti


Stretti nella folla di passeggeri del 491, in piedi da circa mezz' ora, diretti verso una metà irraggiungibile.
Non pensavo che a Roma ci si impiegasse così tanto per arrivare in anticipo in un posto che, da casa mia, raggiungerei in 5 minuti. Incomincio a rimpiangere quell’ euro che avrei potuto impiegare per qualsiasi altra stronzata! Mi sento “leggermente” compresso, stritolato, a tal punto che non riesco più a percepire dove finisce il mio corpo e inizia quello degli altri! Quì c’ è un gomito, là c’è un rene... oh, il mio fegato ha appena fatto amicizia con la mano di qualcuno. Mi sento colare addosso il sudore del magrebino emaciato che si slancia come una corda di violino, per reggersi alla sbarra di ferro sopra di me. Sento la voce di una donna straniera ammonirmi sull’ orecchio sinistro parole slave, slavate, insignificanti. Siamo - tutti - nella - stessa cazzo - di barca. Ognuno con la sua routine da espletare fino in fondo: studenti che si sorridono e parlano di un compito in classe troppo difficile, punk /metallari/rifiuti umani che improvvisano una revisione discografica per il nuovo disco dei “Black Saturn”, rumeni e albanesi sporchi di stucco e calce, pietrificati sui loro jeans – un tempo blu- somiglianti a statue di sale.. più che routine, sembra una ruota della tortura! Ho la nausea. Odio questa fila, fatta di gente che sbraita, si lamenta e ricade curva nelle seggiole di plastica. Almeno io rimango nella mia silenziosa sopportazione, come il magrebino. I finestrini sono aperti, e ogni tanto percepisco anche qualche particella di ossigeno sfiorarmi il viso, ma è un miraggio. L’ aria non circola. Ha così tanti polmoni da sfamare che, prima di arrivare qui, si trasforma in vapore. Una signora anziana ben vestita, laccata e curata si sta specchiando sulla vetrata del bus. Che orrore pietoso vederla con quell’ espressione sulla faccia! Gli angoli della bocca piegati verso il basso, in una smorfia di disgusto per se stessa e gli altri. Dal viso gli pende una carne pallida e raggrinzita - un tempo morbida e rosata– che sembra cibo per cani. Ma a che diavolo sto pensando? La verità è che nessuno riesce ad adeguarsi al tempo, ed è per questo che ora la signora ha rivolto il suo avido sguardo verso una biondina due posti avanti a lei. "Che fa signorina, SCENDE?!", povera ragazza! Martirizzata dal peso dell’ esame di diritto privato, toccata nei suoi anni più splendidi dalla triste consolazione di aver barattato la sua gioventù con un bel pezzo di carta! "Si…no! Non devo scendere" , risponde insicura, stringendosi al petto il suo libro. La vecchia fa strage di spalle e si fa avanti, con gli occhi fissi ai capelli della fanciulla. Chissà perchè, adesso le sorride. Prima fermata: il bus defeca un moltitudine di facce, di sguardi, di situazioni prima di inghiottirne altre. Poi, dopo essersi riempito lo stomaco, ricomincia a camminare, con il suo passo pigro, lento. Ora accanto a me ho un “ ipod vivente ”, che si mette a canticchiare a bassa voce una canzone pop, un po’ triste. Il magrebino! Lo guarda con la mia stessa disapprovazione, poi si gira e cerca di scorgere da lontano la facciata del bus – ambizioso! -. No, nessuno è mai riuscito a vederne la fine, quando è martedì! Chi guida? Chi è che gli sta affianco? Chi grida? Chi ride? Non ci si capisce una mazza! E ill mondo gli scorre accanto, con i suoi cumuli di pattume agli angoli delle strade... con i suoi cani randagi. E’ fastidiosamente veloce,ora. Non ci si ferma mai, se non per scendere o per salire. E siamo tutti qui dentro, diretti verso le stessi posti: pusher, studenti, lavoratori in nero, universitari, nerd, vecchie, giovincelli con la mamma, colf, e in ultimo io… Perché anche se in fondo trovo sconcertante la situazione, ci sono e sto in piedi ( COME IL MAGREBINO CHE PUZZA). Io... sono soltanto un altro passeggero anonimo, uno dei tanti che non si lascia persuadere dalla bellezza del viaggio, che cerca di guardare la postazione del conducente. Abbiamo tutti pagato lo stesso prezzo per essere qua! Essere abusivi in questa marea è del tutto fuorché un privilegio. Perché quando passerà il controllore sono sicuro che non guarderà in faccia nessuno, non noterà nemmeno la puzza di merda che attornia questo bus, né l’ età o lo status sociale, o l’ etnia. Non ci sarà nessuna discriminazione, né tempo per scendere e scappare. Quando il cappellino blu si agiterà tra la folla, si assisteranno a due tipi di reazione: quella di chi vive con sprezzo la vita e tenta stupidamente la fuga, e quella di chi bonariamente cercherà di strapparsi un sorriso dalla faccia esibendo il tesserino. Ora come ora me ne rimango qui, aggrappato a questa sbarra ormai calda, in compagnia di tutti e di nessuno. E’ un po’ come camminare da solo in mezzo alla fila della domenica in centro. Il magrebino ha capito la situazione e lancia delle occhiate al carticino che ha sulle dita.
Ma tu? Tu ce l’ hai il biglietto?


SIMONE PALMIERI

2010-10-08

Lettera del Misantropo moribondo per molta bile al cuore.

2 commenti

Finalmente mi definivo Misantropo. Avevo smesso di infarcirmi il cuore, sede dei sentimenti, con quelle sviolinate smielate sul modello libro Cuore. Avevo smesso di vedere, come un pesce boccheggiante, quegli stupendi pesciolini colorati. Pesciolini colorati che erano esche: e nascondevano ami. Pronti a devastare la mia bocca sempre pronta. Pronta a gridare parole d’amicizia. Parole d’amicizia stop. Sentimento d’amicizia doppio-stop. Ora basta! concedersi per intero, concedersi tutto, concedersi a tutti, aprire il culo come un trans per una dose di amicizia che sarebbe arrivata sporca, tagliata male, infetta di sangue malato. Niente purezza ideale. niente stato perfetto nell’amicizia. Era ormai una dose di eroina scarica, una dose verso la morte, lontano dall’esistenza ideale-pura- astratta. Da bravo credente-praticante cercavo e, illuminato da varie teorie filosofiche più o meno idealistico-buonistiche, credevo che il bene avrebbe trionfato, che l’amico perfetto sarebbe esistito, che qualcuno che per me avrebbe dato il culo -come io avevo fatto tante volte- ci sarebbe stato. Ma no. Non era così. I tempi cambiati: alcuni malati mentali, cazzi-loro congeniti da sbrigare, senza tempo e modo per servirmi, desiderosi solo di essere serviti con un’attenzione maniacale alle stronzate che avrebbero vomitato sui loro problemi personali con un Ego degno del peggiore dittatore sudamericano. Altri, pur professandosi liberi, fermi perennemente in schemi fissi, fermi in filosofia, nella libertà sessuale professataMAIpraticata, inchiodati ad idee noiose e pararivoluzionarie stantie come la parola stantio. Allora stop: rigetto le teorie filosofiche più o meno idealistico-buonistiche, mando in soffitta secoli di riflessione filosofica, me ne fotto della mediazione e dell’accettazione della diversità degli altri, me ne sbatto della politica delle amicizie, mi propongo e scompongo come corridore di un gran premio con un alettone completamente rotto e col motore della scuderia che invece di avere macchine formula1 manda in pista cavalli con caschi (in realtà elmi medievali) e con alettoni montati sulla coda e zoccoli duri o morbidi sul bagnato e sull’asciutto e viceversa. Deluso dall’angoscia interiore provocata dal mio malessere psico-esistenziale continuo, mi alcolizzo con il solito stock alla ciliegia e vomito in un anfratto sconosciuto in cui trovo un lombrico che mi sta simpatico, per cui provo empatia, che so non mi tradirebbe per una ragazza più figa di me, che so che non preferirebbe una devastante discussione ripetitiva a quel silenzio che sta unendo il nostro incontro e lo sta suggellando come ceralacca sulla lettera del cardinale di sticazzi. Prendo il lombrico e lo schiaccio con tutta la violenza di cui è capace il palmo della mia mano: anche lui, se fosse uomo, mi tradirebbe, se ne avesse l’occasione. E infatti lo fa anche da animale: la mia mano, che l’ha schiacciato con la violenza con cui un’amica usa un voodoo su un’amica rivale in amore, adesso puzza del suo tanfo infernale, come infernale è il tanfo dei tradimenti, delle pugnalate, dei calci che mi sono stati dati e che ho tollerato da bravo penitente-credente. Adesso basta. Ogni atteggiamento, pure legittimo, pure corretto, pure parte integrante del carattere di un individuo, può irritarmi e diventare oggetto di acido solforico e uova marce che fluiscono adesso libere dalla mia bocca, senza più alcun freno. E tanto sarò più caustico quanto sarò sottilmente ironico. Tanto manifesterò disagio quanto più, da solo, mi crogiolerò nel dolore per la perdita di un valore mai esistito, per la morte di un dio ingiusto. Nella certezza che se non ho la stanza dei bottoni con cui far venire le emorroidi a falsi detentori della giustizia, ci sarà sempre un millepiedi in un anfratto, un millepiedi pronto a farsi schiacciare. E l’unica consolazione sarà pensare che a tanti piedi possano corrispondere tante gambe (da spezzare).

2010-10-02

The promise

1 commenti

Sposto le tende. Seguo la musica. Qualcuno sta suonando un pianoforte. E, quasi impercettibilmente, canticchia. Ho delle scarpe nere, lucide, quasi mi ci specchio. Non ricordo, io, qui, non so.

La campagna era scivolata via, avvolta dalla nebbia. Il pullman l’aveva attraversata, violata, dimenticata. Lei, inaspettata osservatrice, contro quel finestrino. Vedeva il mondo scorrere. Lo vedeva sfumare nella velocità. Lei era lì, ma non si sentiva. Non riusciva a percepire se stessa. Si sentiva vuota e vaga, annientata. La giornata era passata, dandole l’illusione di normalità, di stanchezza. Lei era passata come la giornata, era passata come il pullman in mezzo alla campagna. Era passata. E di lei non era rimasto nulla. Si sentiva persa. Guadava fuori dal finestrino e non capiva i suoi sentimenti in quel momento. Era stata felice? Si era sentita sola? Che cosa aveva provato? Che cosa provava? Aveva tanta voglia di piangere e non capiva perché. Aveva tanta voglia di rifugiarsi in inutili conversazioni con persone che non c’entravano nulla con i suoi problemi. Si sentiva persa. Tutto qui. E non aveva il coraggio di affrontare quella realtà da sola. Voleva l’appoggio di qualcun altro. E improvvisamente si mise a piangere. Improvvisamente. Senza capire il perché. Il pomeriggio era presto diventato sera. La luce era scomparsa. Le sue scarpe erano mute sull’asfalto. Continuava a percepire quella sensazione di vuoto. Era uno zero in quel momento. Poteva essere tutto. Forse, in realtà, non era proprio nulla. La guancia era la stessa. E si poteva quasi azzardare un “anche la lacrima era la stessa”. Lenta le scivolava fino alle labbra, per poi essere assaggiata da una lingua indifferente. Gli occhi spenti cercavano risposte fra i volti e i cieli delle foto attaccate al muro. Billie Holiday cantava la danza della lacrima sulla pelle olivastra. Già, anche la pelle era lontana dalla perfezione troppo intravista altrove e mai toccata con mano familiare. Era un qualsiasi giorno d’inizio dicembre e lei lo aveva visto dappertutto. Fra il candore dei simboli di più e meno infinito s’una lavagna scura, fra le curve degli alberi domenica sera, fra le lenzuola del suo letto. L’aveva desiderato per tutto il giorno, e non riusciva a non pensare alla sua pelle liscia, alle sue mani che sicure s’insinuavano in ogni parte del suo corpo. Con la sua intensità d’amante l’aveva sconvolta, fatta vibrare intimamente. Il paradiso era apparso, giustiziere nella notte, e l’aveva lasciata ansimante e appagata. E la pelle fremeva dal desiderio di essere di nuovo accarezzata, annusata, assaggiata, chiamata. Aveva voglia di lui. Aveva voglia del suo modo di gestire il suo corpo e quello di lei. Aveva voglia di essere penetrata con violenza per poi essere ammirata, nella calma dei sensi di lui, da occhi densi d’amore e da mani divine. E l’oro della pelle di lui stampata nella sua mente, sui suoi seni, nel suo sesso. Le labbra. Da qualche giorno, esaltate delicatamente da tenui rossi ciliegia, l’espressione più intensa del suo animo, era rappresentata dalle labbra. Deliziose morbide labbra di donna. Già, una donna. Però, dove? Nell’animo? Nella maturità delle scelte ( o delle non scelte)? Nella sensualità dell’espressione dei suoi desideri? Nel sentirsi, in rapporto a se stessa? Perché si ritrovava la sera a piangere lentamente, quasi nascondendoselo? Billie non aveva di quei problemi. Ripeteva all’infinito le stesse parole d’amore. Ma n’era convinta? Come poteva esserne così sicura? Se guardo intorno a me vedo solo lui. Ma se chiudo gli occhi che succede? Io, dove sono finita?

(Billie era ritornata a cantare. E lei era tranquilla. Lontano si sentiva il fruscio del giradischi. La voce era calda. Sul muro la foto di Baudelaire la fissava con severità. Aveva voglia di colorare. Di annusare il legno dei suoi pastelli per poi studiarne le sfumature. La giornata era calda e luminosa. Billie urlava sottovoce la sua solitudine. E lei incartava con le parole la sua vita. Il suo amore per lui e l’angoscia di ritrovarsi davanti ad uno specchio, e non vedere nulla, se non una densità chiara ma indifferente. Si era cercata fra le pareti lucenti di una stanza divina, si era cercata fra i corridoi e i pontili di una nave lunghissima. E il cielo. Già, senza il cielo nulla aveva più valore. Aveva voglia di ballare. Aveva voglia d’indossare un abito morbido e svolazzante. E di ballare tutta la notte. Forse proprio sul pontile di quella nave. Con tutte quelle luci deliziose).

Si sentiva dolcemente coricata s’un letto di petali morbidissimi che l’avvolgevano, seducenti, ricordandole ciò che di più prezioso custodiva la sfera d’argento denso e luminoso che era la sua anima: una profonda voglia di amare la vita. E tutto l’avvolgeva profondamente trasportandola in un vortice di sensazioni estreme. Tutto, le luci di Natale, l’acqua di quella città, i tramonti su quel cristallo, le vetrine con le decorazioni dorate, i pranzi in compagnia, le vecchie librerie piene di vecchi libri inglesi, stropicciati, vissuti, amati, ricordati, dimenticati. Tutto ciò che le era permesso di vedere, lei lo conservava stretto nel suo cuore, lo assaporava in quel possedere, e lo incartava con spesse tele di polvere di stella. Ma soprattutto aveva voglia di ballare deliziose canzoni jazz, dolci, lente. Because I’m in heaven when we’re together. Ballare, ballare, ballare, solo ballare, guardarsi negli occhi, baciarlo dolcemente, intensamente, fino alla fine della notte, sussurrandogli parole dolci, raccontandogli storie fantastiche, storie vere, storie che un giorno saranno vere. Vorrei ballare, fino a stendermi esausta s’un letto, dove, poi, riprese le forze, fare l’amore con lui, sussurrandogli parole dolci, ricordandogli tutte le nostre storie, ballando con lui, fissandolo negli occhi, dicendogli che lo amo in un modo infinito ed eterno. E in quella terrazza coperta, ci sarebbe un piano. Io mi siederei, lo guarderei negli occhi, e gli suonerei Blue Moon e tutte le canzoni jazz che possono rubargli dal volto un sorriso, perché il mio cuore si espande nella sua felicità. E canterei per lui, farei boccacce, performances improvvisate. Ma soprattutto starei zitta. Mi alzerei, mi aggiusterei il vestito con i lustrini accecanti. E lo amerei in un modo disperato. DISPERATO.

Sposto le tende. Seguo la musica. Qualcuno sta suonando un pianoforte. E, quasi impercettibilmente, canticchia. Ho delle scarpe nere, lucide, quasi mi ci specchio. Non ricordo, io, qui, non so. Il piano continua tranquillo, la voce si fa sempre più sicura, ignorandomi. Intravedo il piano, scostando la tenda di pesante velluto blu. Che voglia di suonare. Il motivo del piano è sempre più audace e accattivante. Ci vorrebbe una tromba. Non fa freddo. Mi tolgo la giacca. Ci sono delle luci, sul cornicione del balcone. Esco. E lei è lì. Lei, è lei che sta suonando il piano, è lei che canticchia. E adesso ha smesso di suonare e si agita sullo sgabello, ballando su chissà quale musica lontana. E accompagna i suoi movimenti con la voce. Porta un lungo vestito scuro, ricoperto di lustrini che ad ogni suo movimento, riflettono le luci del balcone, danzando anche loro. Deve essere proprio allegra, si è messa anche a fischiare. La guardo, incuriosito. La vedo cambiare musica nella testa. Ora si muove lentamente, si accarezza il corpo. Chissà chi sta cantando nella sua testa. Mi domando il perché dei suoi sospiri. Mi domando il perché del vestito scollato. Sulla schiena, sul petto. Mi chiedo il perché della sua pelle olivastra. E i capelli scuri, neri. La guardo, e sento che non potrebbe essere più lontana. La guardo. Ma io, cosa ci faccio qui? Decido di avvicinarmi. Passo dopo passo, comincio anch’io a sentire la musica. Un’intera orchestra, suona jazz. La vedo ballare, sento anch’io la musica, la voglio. Sento di volerla. La voglio con la sua musica che solo chi le sta vicino può sentire. La voglio con la sua pelle scura, coi suoi capelli neri, e col suo corpo che sembra promettere solo intensità. Le sfioro la spalla. La pelle è morbida. Lei si gira. Mi guarda. I suoi occhi sono neri. Dio, come sono neri. Le sue labbra sono dense di sensualità, quasi mi chiamano. Stavo pensando a te, mi chiedevo come mai tardassi tanto. Mi ha parlato. La guardo sorpreso. Vuoi ballare con me? La stringo fra le mie braccia. Potrebbe non esistere, tanto è assurdo che io sia qui, con lei, che mi aspettava. Ma non m’importa. Se è l’unico modo di esistere, qui con lei, allora scelgo di essere anche solo un personaggio di un suo racconto. Sento di amarla. Sento di conoscerla, di volerla scoprire, nuova, fragile, speciale, sensuale, semplice. Lei. Balliamo, balliamo, amore mio. Resta qui con me. Siamo solo dei pensieri. Stringimi. Ti prego. Il sogno potrebbe finire, e tu svanire nel nulla. Stringimi, sento di volere solo questo. Cosa ne sarà di noi domani? Siamo così fragili, così leggeri. Lasciati vivere da me, così da impararti a memoria per sognarti ancora, e ancora, e ancora.

2010-09-25

Contro l'istruzione obbligatoria.

14 commenti

L'istruzione obbligatoria è un crimine.

A scuola si entra la prima volta piangendo e scalpitando, tentando di divincolarsi dalla stretta di un genitore fiero ed emozionato, quasi sempre sollevato. Ci si entra con lo sguardo ancora limpido di chi non è affatto stanco di giocare, e che ha preso ormai da tempo confidenza con gli oggetti del mondo e ha iniziato a plasmarli a modo suo, in un mutuo arricchimento segnato da scoperte emozionanti e deludenti incidenti di percorso in cui si fa strada a poco a poco il senso del limite. Se ne esce, se fortunati, dodici anni dopo. Altrimenti gli anni di detenzione possono aumentare fino a quattordici, e per chi è costretto o entusiasmato e vuole proseguire con l'università si arriva anche a venti, o più. Quasi la misura di un ergastolo all'italiana. Se ne esce del tutto cambiati: i giocattoli non esistono più o, se esistono, non sono più il mezzo preferito per conoscere il mondo, ma il primo rifugio per dimenticarsene.
Il mondo è diventato una cosa terribilmente seria. Il bambino, il primo giorno di scuola, se ne rendeva conto, e piangeva. Adesso che è diplomato, o laureato, sorride di quell'atteggiamento “infantile” (l'aggettivo è inteso né più né meno che come un insulto), con la consapevolezza di chi ha imparato tanto e deve guardare avanti per costruirsi un futuro, per “realizzarsi” in quella vita che ai suoi occhi era sembrata uno scherzo, e che adesso pare una trappola. “Realizzarsi” è uno dei termini correnti atti a designare il pieno inserimento nel regime di insensatezza instaurato dalla cultura capitalistico-consumistica: la forza creativa di un bimbo è completamente annientata, il suo reale contatto con le cose del mondo lobotomizzato, la ricerca di senso e il confronto con le grandi questioni che comporta l'essere in vita ridotti alle sole, meccaniche funzioni alienanti del lavorare e del comprare. Quel bambino che sarebbe stato capace di ascendere alle vette dei monti per guardare il cielo da vicino e solcare i mari in tempesta alla ricerca di terre sconosciute, per soddisfare l'infinita curiosità e l'inesauribile impulso al gioco, è diventato un uomo convinto di sapere già tutto ciò che serve, vecchio, disilluso, inetto, docile, incurabilmente noioso e annoiato.
Cosa è successo? Perché non gioca più come prima? E' intervenuta la scuola. Ecco una possibile testimonianza:

“A scuola ti insegnano un sacco di cose, purché tu faccia silenzio e parli solo se interpellato, purché tu smetta di giocare e non veda la tua famiglia almeno per mezza giornata, purché tu non abbia da ridire su ciò in cui vieni istruito, purché tu sia pulito, educato e obbediente. All'inizio può sembrare una fregatura, poi invece capisci quanto ci si guadagni. A scuola ti insegnano che il mondo è fatto a scale: in cima siede chi ha abbandonato per primo i giocattoli, si è messo a studiare e ha capito subito che la vita è una cosa seria, cioè proprio quei bambini con cui giocare non è mai stato un piacere; in basso, invece, stanno coloro che non sono ancora maturati abbastanza, che non studiano e non hanno ancora capito com'è fatta la vita. Esiste un modo preciso per misurare a che punto sei della scala: i voti. Più i tuoi voti sono alti, più vicino sei alla cima, e più vicino sei alla cima, più hai il diritto di sentirti migliore degli altri.
Studiare, essere educati e arrendevoli alle ingiunzioni dei professori è la strada maestra per arrivare in cima. Una volta in cima, se sei fortunato, puoi anche collaborare coi professori per far capire agli altri che dovrebbero essere tutti come te. In questo modo, imparare diventa una gara avvincente e molti si impegnano per raggiungere la vetta, spinti dall'ambizione o dall'invidia dei compagni.
Studiare all'inizio è noioso e proprio non vorresti farlo, ma poi ti abitui e anche se ti annoi cerchi di non farci caso. Salire la scala è troppo importante e rimanere in basso è motivo di umiliazione, di scherno, di quel senso di inferiorità che deriva dalla coscienza di aver fallito totalmente, di non valere nulla.
Anche nelle materie di studio c'è una scala, che è poi il metro con cui si misura il voto che meriti. Per prendere un voto alto devi essere a conoscenza di questa scala e devi saperla applicare. Lo studente modello è quello che senza conoscere da prima la scala specifica da adottare in una determinata occasione, riesce a fare la scelta che si colloca in cima ad essa. In ogni materia che si studia a scuola ci sono delle informazioni da ritenere giuste (quelle in cima alla scala) e altre da ritenere sbagliate (quelle in fondo), delle opinioni giuste e altre sbagliate, degli atteggiamenti giusti e altri sbagliati. Più scelte giuste collezioni, più i tuoi voti sono alti.”

Facciamo qualche esempio riguardante la situazione italiana.
La lingua giusta è l'italiano (ossia il volgare toscano, imposto come lingua nazionale al popolo - ? - italiano con l'unità - ? - d'Italia), e in cima alla scala si trova l'italiano dei manuali di grammatica. Ogni deviazione dalla norma è errore, opportunamente contrassegnato, nei temi, da sottolineature in rosso o in blu, a seconda della gravità. Parlare o scrivere come il contadino che conosce solo il dialetto o come Dante Alighieri è ugualmente errore, in quanto inosservanza delle regole grammaticali dell'italiano contemporaneo: matita rossa o blu, marchio d'infamia.
Il sistema politico giusto è la repubblica democratica fondata sul lavoro. Il lavoro è un'attività nobilitante dell'animo e costituisce la modalità primaria con cui l'uomo (ossia il cittadino, non essendo contemplata una differenza tra i due) si inserisce nella vita sociale e interagisce con altri uomini. Lavorare almeno otto ore al giorno è la norma, non lavorare è segno di pigrizia, immaturità, irresponsabilità, inettitudine. Rispettare le leggi è giusto e morale, non rispettarle è sempre sbagliato e immorale. Chi non rispetta le leggi va punito severamente con ammende in denaro o con più o meno lunghi periodi di reclusione in carcere.
Il modo giusto di comportarsi in società è quello che si rifà ai principi del buon senso comune. Chi non vive conformemente al buon senso, è da considerarsi anormale o squilibrato, e in quanto tale va corretto facendo ricorso alla psichiatria e a opportune cure farmacologiche.
La cultura giusta è quella occidentale, democratica e liberale, tuttalpiù socialista.

L'istruzione obbligatoria è un crimine perché tutto ciò non è né vero né giusto. L'istruzione obbligatoria è il più imponente baluardo che sia mai stato edificato a difesa della mediocrità, la ferrea egida temprata per annichilire un'umanità non più capace di prendere il mare in cerca di nuove americhe, non uomini, ma sordido impiegatume della vita. L'istruzione obbligatoria è la soluzione finale al problema che ha ossessionato da sempre i centri di potere: la massa, nella sua portata distruttrice e rivoluzionaria, corrosiva del vecchio e portatrice del nuovo, il temutissimo nuovo. L'istruzione è il vero potere dello Stato moderno, l'unico che riesca realmente a garantire il gattopardesco “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Da quando, in età moderna, lo Stato ha avuto bisogno di obbedienza totale a un solo potere centralizzato, la scuola e la religione si sono offerte come alleate fondamentali per imporre un'interiorizzazione del senso di colpa e del rispetto delle leggi, del “senso civico” e della morale della moderazione, strumenti necessari a garantire stabilità e prosperità al potere delle classi privilegiate senza ricorrere a un continuo stato di polizia. Finché tutti i bambini diventeranno uomini in un solo modo, l'unico previsto, la fisionomia delle classi al potere difficilmente cambierà nella sostanza. Finché i bambini saranno costretti ad andare a scuola, la cultura sarà odiata e snobbata, e tuttavia il disciplinamento delle coscienze continuerà. Finché i bambini saranno costretti a imparare, si ucciderà la loro creatività, il loro spirito critico, si recideranno alla base le uniche reali speranze di rinnovamento dell'umanità, o più semplicemente della società italiana. Non a caso, a ribellarsi con decisione alla mafia sono stati gli immigrati di Rosarno, non certo gli “istruiti” consiglieri regionali del meridione. Istruire non significa solo “far apprendere a qualcuno nozioni di una disciplina”, ma anche “dare istruzioni, direttive, consigli su ciò che si deve fare”: che sia un caso?
Quando si potrà ottenere un lavoro sulla base delle proprie competenze effettive e non di un curriculum che renda testimonianza del proprio periodo di detenzione e di canalizzazione forzata della mente lungo binari consentiti, forse la scuola non sarà percepita come una necessità così impellente.
Quando la scuola sarà gestita da libere associazioni private di cultura, forse il bambino, tra una partita a calcio e una al biliardino, stanco, avrà voglia di conoscere il mondo, per scoprire qualcosa di nuovo o per trovare nuovi stimoli per giochi più interessanti, o forse per conoscere altri bambini. In caso contrario, si sarà risparmiata una violenza e si sarà reso un servizio alla libertà che ognuno di noi dovrebbe avere, una volta nato senza averlo chiesto, di gestirsi la propria vita a modo suo.



* Non condivido neanche una parola o una virgola dell'intento, delle idee, dei contenuti di questo articolo. Ma, pur pensando questo, ritengo sia un articolo utile per far nascere un dibattito, che mi auguro sereno e pacato, attorno al perennemente attuale argomento scuola. Un saluto. L.F.

2010-09-20

Due o tre cose su "Profumo di donna"

0 commenti



E' la storia di un cieco. Difficile costruire una storia intorno ad un cieco,i ciechi sono prudenti, il punto è che si tratta di Gassman. Gassman è Gassman a prescindere dal ruolo che si tenta, invano, di cucirgli addosso, non può interpretare nessuno che non sia se medesimo nella misura in cui l' indole mattatoria lo porta SEMPRE ad overinterpretare se stesso. Quindi questo è un film su come sarebbe stato Gassman se fosse stato cieco. Come il Grande Dittatore non è altro che un film su come sarebbe stato Chaplin se fosse stato Hitler. D'altronde Chaplin subì per primo il plagio da parte di Hitler, che gli rubò i baffi.
Si tentava di parlare di Gassman cieco, il fatto è che il suo stato, lungi dal depotenziarne l'essenza, ce ne offre un distillato di primissima qualità. Gassman cieco finge bene,molto meglio di quello sano, falsifica ciò che è con quello che dice di essere, credo in Dio, crede nella speranza, ripone tutto quel che rimane di se stesso nell'amore fedele di una giovane donna, ha paura di morire. Però lo nasconde. Dice di essere una pietra. Mente. Gassman cieco non è altro che un attore, un gran figlio di buona donna, come tutti gli attori, tutto qui. Risi è bravo in ciò, relega l'azione "fuori dalle immagini", sfruttando tutte le potenzialità di una storia che deve essere necessariamente statica. E' un film sulle conseguenze delle azioni. Gassmann è già cieco, il suo giovane badante è già tale, non lo diventa, la donna che lo ama non impara ad amarlo, lo ama da sempre, durante la pioggia la telecamera indugia sulla "prigione interiore" di Gassman sulla quale per un attimo soltanto si apre un spiraglio e allora quello spiraglio va colto mentre l'esuberanza gioiosa resta relegata sullo sfondo, fuori dalla finestra. Dopo un po' tutti gli inganni vengono svelati, c'è solo il cieco sofferente,tremabondo, va via il giovane che si prendeva cura di lui, va via Gassman, va via Risi. Rimane la realtà dietro la finzione squarciata.

2010-09-13

"Sui giovani d'oggi ci scatarro su"

0 commenti

Zoe aveva vent’anni.

C’era tempo per la paura di perdere un lavoro sottopagato.

Aveva una vita per questo.

Aveva vent’anni ed ardeva di quella inconsapevole bellezza di chi ancora pensa che per il mondo, si possa fare qualcosa.

Lei, come tanti - pensava.

E allora, scarpe logore a cortei anche fuori Fishville, per commemorare con bandierone al vento e facce contrite per gli eroi che erano stati.

Lei, come tanti - pensava.

E allora, indignazione, rabbia.

Un giorno, Zoe di FishVille, paesello al confine con il mondo proibito che ripudiava e disprezzava ( - lei, come tanti- pensava) udì uno strano mormorio, sottofondo di slogan come “la libertà è sacra”, “viva la legalità”.

Era un brusio fastidioso.

D’un tratto un tizio incappiato in una cravatta dai toni tenui s’era fermato di fronte alla folla urlante e recalcitrante di quel corteo.

Abbassando gli occhiali, con il giornale ancora sotto braccio, guardava ad uno ad uno quei ventenni delle prime file.

Ed il suo sguardo, sembrava toccare ogni presente, penetrarlo, zittirlo.

Con rassegnazione biblica, le acque del corteo si divisero in due, per far passare il profeta.

Le bandiere smisero di sventolare.

Zoe, continuava ad urlare, aveva vent’anni. Non capiva.

Con fare interrogativo chiese al suo vicino chi fosse quel tizio.

Non ebbe risposta né a questa né alle domande successive.

Zoe, continuava a non capire.

Il giorno dopo, tutto era come prima, solo che di quella manifestazione non si parlò più. Si erano tutti sparaflashati il cervello, come se sul serio non ne avessero memoria.

I poster dei grandi eroi sempre appesi nelle sale riunioni e stampati in technicolor sulle magliette.

Sempre gli stessi slogan bofonchiati o urlati.

Tutto era come prima.

Solo che, quando in un volantino lesse “ E' arrivato il vento del cambiamento...” Zoe, non riuscì che a sentire tanfo di carcasse in putrefazione.

Quello fu il momento esatto, il preciso istante, in cui capì che la sua terra non aveva speranze.



“Il denaro, il potere porta gli uomini a gesti spregevoli.

Per loro natura le nuove generazioni si oppongono, in un processo quasi scontato che si ripete da millenni.

Si oppongono per poi, in maturità, dimenticarsene e per la maggior parte, trasformarsi da vittime in carnefici.

E' così che va il mondo. Anzi, che andava.

Questa regole è stata irrimediabilmente spezzata.

La mia generazione è una generazione pingue di slogan da supermercato e di bandiere di uomini che con ogni probabilità non fanno che girarsi e rigirarsi vorticosamente nella tomba, nella triste coscienza di essersi sacrificati per dei quaquaraquà.

La mia generazione si vende, anzi si svende.

E lo fa col sorriso come quando si è già vecchi e compromessi.

Solo che la mia generazione non ha l’alibi della vita che ti devia perché la vita, non l’ha ancora vissuta.

Il “giusto” predicato in tutte le salse per tre volte al giorno - ore pasti, è vuoto, non esiste.

Figurarsi il “Giusto”.

In questo marasma di “anime belle solo quando non c’è da sporcarsi le mani”, forse, qualcuno potrebbe salvarsi, ma si trova in una condizione di solitudine e di isolamento mai avvenuta nella storia.

Sono vissuta in un paese che mi sembrava più libero di quanto lo fosse cinquanta anni fà.

Pensavo di essere fortunata, ero stata generata da una terra buona.

Non è così.

Qui a Fishville, gli uomini assetati di potere ed i giovani si somigliano, si confondono, si fondono.

Il predatore mangia le prede.

Ed, io, a questo, mi opponevo.

Fino a quando la consapevolezza del cannibalismo tra prede ha preso il sopravvento.

Le carcasse rimangono, ed il puzzo io lo sento.

La ventata di aria fresca, forse la sentite voi: magari è questo che si sente dopo aver ucciso qualcosa e prima o poi, anche qualcuno, “una ventata di aria fresca”

Chissà.”

2010-08-29

La ragazza senza colore

0 commenti
C'era una volta una ragazza minuta e fine, con i gomiti tondi e i capelli arricciati, gli occhioni bianchi e la bocca gigantesca.
Questa ragazza era nata senza un colore.

Pur avendo desiderato per tutta l'infanzia un bel colore per risplendere trionfalmente e eternamente dinanzi al mondo, non era riuscita a dare un calore alla propria forma che continuava ad apparire come una triste figura dai contorni rarefatti.
Un giorno, un verde – un bel verde – passò accanto a lei, e la triste ragazza bianca e dai contorni rarefatti, stanca della sua vita di costernazione e disprezzo, decise di seguire il verde per le strade della vita, divenendo verde anch'essa. Essere verde fu la cosa più bella che avrebbe mai potuto desiderare: tutti la salutavano quando la incontravano, qualcuno scambiava qualche parola con lei, un'affettuosità, un vezzeggiamento, “oh, ma che bel verde!”, e lei era contenta perché in fondo, pur non capendo come funzionasse quella cosa del verde, era bella che colorata. Era colorata e tutti la salutavano.
Un giorno, però, il verde, stanco di essere seguito dalla creaturina minuta e fine, dai gomiti così tondi che sembravano palle di gomma, decise di cambiare rapidamente strada, lasciandola nel bel mezzo del bizzarro cammino della vita e facendola divenire di nuovo bianca.
La cosa intristì parecchio la ragazza, così minuta e fine da sembrare una bella linea spessa, poiché perdendo il colore aveva perso nuovamente l'interesse della gente, che non la salutava più, non le diceva niente quando la incontrava per sbaglio, nessun complimento, “oh, devo andare”, “oh, non ho tempo”.
Fortuna volle che, in quel momento passasse un rosso dalla stessa strada, e la ragazza minuta e fine, così fine che ogni passo minacciava di spezzarle la spina dorsale, decise di copiare il rosso come aveva fatto col verde, riconquistando quella considerazione perduta che la faceva sentire così bella e importante, intelligente e acuta, e divertente, e imprevedibile, e “oh, ma quello è un rosso?”, “sì, non vedi?”, “oh, ma è bellissimo”, e giù di complimenti, giù di vezzeggiamenti, e la ragazza era molto felice d'essere rossa. Era rossa e tutti la salutavano.
Passò qualche tempo e la storia tornò a ripetersi senza appello, facendo sprofondare la ragazza – dagli occhi così bianchi e lattiginosi da sembrare due astri satinati – nella solita melanconia.
Non sapendo cosa fare, iniziò a seguire altri colori: un blu, un giallo, un nero, un fucsia, un ecru, un marrone, balzando negli stessi anelati splendori d'un tempo e precipitando negli stessi oscuri baratri che il sempre ugual esito ricreava.
Stanca di non avere un colore, fermò per strada un simpatico arancione e gli chiese che cosa avesse che non funzionava.
– Cara la mia ragazza dalla bocca così grande da produrre formidabili e melodiosi echi – disse l'amabile arancione – se non riesci ad avere un colore, sarà che forse sei vuota dentro?
La ragazza lo osservò con rabbia e livore: – Come osi dire che io sono vuota dentro? Io sono il più lucente astro del cielo e ho avuto tanti colori che non ricordo! Una volta sono stata persino rossa!
L'arancione rise sommessamente, coprendosi il volto con la manina paffuta e colorata.
– Oh, puoi aver avuto un colore una volta, ma quel che sei è solo un riflesso, il riverbero di un colore che già esiste. Di tuo, c'è ben poco da esistere. Sei solo il contorno di una ragazza minuta e fine. – spiegò l'interlocutore, col suo parco tono di voce.
– E sentiamo, cosa dovrei fare per aver un colore? – chiese con un filo di ostentazione.
– Puoi smetterla di seguire gli altri colori, smetterla di ambire ad essere l'astro più lucente, imparare dagli altri colori ed essere te stessa. Se tutto andrà bene, ogni rosso, blu e verde ti donerà un po' di se e tu potrai diventare un colore tutto tuo.
– E come si fa? – ribatté la ragazza disorientata.
– Se tu non lo sai già, non posso spiegartelo. – concluse il faceto arancione, che però adesso s'era fatto scuro in viso perché aveva pietà della povera ragazza dai capelli così ricci da sembrare rovi.
La ragazza cadde nel silenzio. Avrebbe voluto pensare a qualcosa, ma da sempre i pensieri che avevano vagato nella sua testa non erano suoi, e per un attimo si maledì per aver seguito così incautamente tutti quei colori, d'essere stata arrogante, d'aver giocato quando bisognava imparare, e d'essersi distratta quando bisognava ascoltare.
– Se non riuscirai ad avere un colore, potrai recarti al Cimitero dei Senza Colore: si trova più in là, ci sta tanta gente, – aggiunse l'ironico arancione, e il suo sguardo fu pieno di dolcissima pietà.
– E come ci si arriva? – domandò l'altra, maledicendosi subito per averlo chiesto.
In cuor suo, non aveva alcuna voglia di sapere il luogo di quel cimitero, né apprendere la strada migliore per raggiungerlo. Non aveva alcun animo per cambiare se stessa e la paura di scoprire che la sua esistenza era sbagliata la fece tremare tutta.
L'arancione, che scrutando negli occhi incolori della ragazza aveva compreso il suo stato d'animo, non aggiunse nulla, e sospirò quando la vide scostarsi, stanca e sconsolata, per avvicinarsi a un triste grigio che transitava proprio di lì, in quell'istante.
Così, senza fare ulteriori domande, e negando ogni commiato al povero arancione, che nel frattempo aveva perso la sua sollecita vivacità, la ragazza sparì, seguendo il triste grigio e accontentandosi di quel vuoto senza colore, che la faceva apparire ma non esistere, e la rendeva, soprattutto, felice di non pensare alla propria condizione.
L'arancione la commiserò in silenzio. Avrebbe voluto davvero far qualcosa per lei, ma ancora una volta era cozzato contro la dura realtà dell'indolenza al cambiamento, poiché ciò che nasce senza un colore, muore senza un colore.
– Ci arriverai perché ti ci porteranno... – concluse rammaricato, incamminandosi per la strada che più preferiva, seguendo il sussurro di un fil di vento, mentre la flebile ragazza, che sarebbe saltata da un colore all'altro senza mai averne uno suo, trascinava il suo destino verso il Cimitero dei Senza Colore, dove avrebbe trovato la fine. Sarebbe scomparsa come una goccia nel mare, senza lasciare alcuna traccia che pochi tratti di matita vergati in un vuoto scuro e triste che, come lei, era senza un colore.

2010-07-07

Il potere supercosmico di Rachele

0 commenti
Nel quattro Luglio del duemiladieci, in una quieta sera del preludio estivo, in una piccola Città più al Sud del Nord che tutti conosciamo, si stavano formando i presupposti per dare origine a un accadimento veramente singolare.
Rachele era una ragazza di ventun anni, dai capelli rossi e due occhialoni che formavano cerchietti perfettamente rotondi attorno ai suoi grandi occhi color lampone e, pur avendo un corpicino flebile e ristretto, provava una rabbia incommensurabile nei confronti del mondo e della società.
Quella sera si trovava a un raduno antimafia come tanti, schiumando, in cuor suo, lo stesso livore e la stessa ripulsa di sempre nei confronti della gente che la circondava, di quella che, all'esterno del circolo che delimitava l'area di apprendimento della manifestazione, osservava l'oscurità e i lumicini e non apprendeva un fico secco. Persone incredibili che non credevano all'esistenza della mafia, che accettavano la corruzione come un fatto della vita, che non si curavano minimamente degli accadimenti del proprio paese, che non riuscivano a plasmare una propria identità, lasciando che fosse la massa a plasmarla per conto loro.
Rachele non riusciva a sopportarlo nemmeno un po': pensare che nel mondo, nel suo mondo, esistesse gente indifferente, incurante, omertosa, capace di archiviare i fatti più terribili dell'esistenza etichettandoli come “inesistenti”, ignoranza che dava pasto ad altra ignoranza, la rendeva furente. Si sentiva invasa da una rabbia segreta e ancestrale, al punto di avvertire un tale rigetto della vita, dell'accettazione dei normali – normali – compromessi che l'atto di esistere esigeva, tanto da sentirsi sul punto di esplodere.
E in effetti fu proprio quello che accadde.
La piccola Rachele coi suoi ventuno anni, di cui ancora oggi non si conosce alcun dato anagrafico che non sia il nome, esplose in un cono di luce di tre chilometri di diametro, portando via con se e con la sua furia edifici, parchi, alberi, persone e quant'altro di solido – non importa se fosse vivente o no – incontrava lungo la sua strada il vorace cono distruttore.
Una piccola testata nucleare innescata da una ripulsione a catena, che si poteva ammirare anche dalla Luna, capace di cambiare il volto del mondo e di quei piccoli esserini che incautamente al di sopra di esso vivevano.
La reazione mediatica fu subitanea. Le più importanti testate giornalistiche e gli stessi tg televisivi, poco avvezzi a trasmettere informazioni reali, declamarono l'importanza dell'atto. Incredibili e significativi titoli come: “Ragazza distrugge una città intera: la forza dell'individuo può davvero cambiare le cose”, salutarono il biblico accadimento, seguiti da un tripudio di gruppi, messaggi, commenti, adesioni raccolti sui più importanti social network.
Un gruppo di scienziati provenienti dagli Stati Uniti, recatisi sul posto subito dopo l'accaduto, pronti ad analizzare l'esplosione con gli strumenti della scienza, dopo ore e ore di analisi accurate e blindate, espressero il loro verdetto: “Trattasi di esplosione volontaria”, Rachele era esplosa da se.
In breve, la piccola ragazza divenne un mito. Nacquero numerose associazioni umanitarie e sociali che si fregiavano del suo nome e di un simbolo, un'icona, che rappresentasse una ragazza nell'atto di esplodere.
I maggiori politici nazionali e mondiali riconobbero l'importanza dell'esistenza umana, dimettendosi dai loro incarichi e lasciando il compito di creare una nuova era alle rampanti classi di giovani politici, che a gran voce, dichiaravano e proclamavano che il gesto di Rachele sarebbe stato d'esempio per le future generazioni e che quel cratere di tre chilometri avrebbe sempre ricordato l'importanza e la forza del libero pensiero.
Libri, numerosi libri, furono scritti, tratteggiando Rachele ora come una giovine fragile con un gran cuore, ora come una guerriera dallo sguardo fiero, oppure come un'instabile, suo malgrado portatrice di ideali più grandi e divini.
Le strutture religiose si svuotarono dall'interno, e non furono pochi i fedeli, che sino allora avevano fondato la loro abnegazione religiosa sull'accettazione del nulla che, attirati dalla meraviglia del concreto, preferirono riporre le proprie speranze sul mito di Rachele e della sua esplosione.
Una nuova classe sociale, i Racheliti, si erse in quel periodo di confusione e di mistico delirio, affermando che avrebbe perpetuato i dettami di libertà espressi da Rachele e dalla sua Esplosione, distruggendo le credenze barbare delle vecchie religioni che distruggevano e separavano.
Molte guerre cessarono, poiché le genti, che a lungo avevano combattuto, si resero conto che fucili e bombe non cambiavano il mondo, mentre un singolo pensiero che portasse a una detonazione quasi atomica avesse molto più valore dei loro scontri. I guerrieri divennero dei liberi pensatori, e presero a girovagare per il mondo, annunciando l'Era del Libero Pensiero. Decina di migliaia di uomini presero a seguirli, diventando proseliti di tanti pensatori differenti, ed esercitandosi nella palestra del Libero Pensiero con tanti stupendi “liberi pensieri” sulla qualità della vita, l'amore per la propria terra, il rispetto per il prossimo e per gli animali.
La Nuova Generazione e la Nuova Era erano infine arrivate, e tutti si sentivano felici di non aver qualcuno che dicesse loro cosa fare, perché finalmente ognuno era libero di pensarla a modo suo (non che prima non si potesse).
Il culto della beltà del cervello e dei magnifici pensieri che da esso si propagavano agli altri, attraverso lo straordinario mezzo della parola e del confronto, divennero i capisaldi di una nuova religione che religione non era.
Qualche anno dopo, i Racheliti, la nuova eminente classe che aveva posto fine a tutte le religioni in favore dell'incondizionato pensiero, giudicò utile per tutta la nuova umanità, che venissero decise delle leggi, magari iscritte, che regolassero in qualche modo quel clima tranquillo ma caotico. Riunitisi in un concilio, stabilirono le basi del Culto di Rachele, sintetizzandole in cinque regole fondamentali che il buon Rachelita avrebbe dovuto seguire. Si vietò di seguire i liberi pensatori, poiché vennero considerati “dispersori della Parola”, e vennero banditi dalle nazioni. Non furono rari i casi di persecuzione, anche violenta, nei confronti di questi nuovi eretici, sebbene il comparto informativo non ne desse notizia, grazie anche alla pressione che i membri più influenti del Culto di Rachele facevano su giornali e mezzi mediatici.
Si parlò di una “Seconda Rivoluzione” e il mondo Rachelita, ancora una volta, si dimostrò compatto nell'accettare le basi della nuova Era, credendo che grazie ai Racheliti il mondo sarebbe guarito definitivamente dalla miriade di lesioni interne che la Società Passata aveva generato con l'ignoranza e l'ignavia.
Gli stati che si opponevano al Rachelitismo, sostenendo ancora la propria vetusta religione, vennero considerati come “nemici dell'umanità” e “attentatori dell'Unico Libero Pensiero”, e per questo furono condotte sanguinose guerre per sterminarli e privarli dei loro territori.
L'economia, che negli anni del “boom” aveva subito una pesante revisione, a causa degli squilibri causati dal cambiamento dello stile di vita che l'esplosione aveva generato, fu salvata anch'essa dagli interventi dei Sacri Racheliti.
L'industria delle armi fu sull'orlo del fallimento, le multinazionali caddero in ginocchio, e tutti davano il capitalismo per spacciato, strizzando l'occhio a un nuovo ordine che liberamente sarebbe nato dall'evoluzione della situazione attuale. Ma i Racheliti, che erano i portatori dell'Unico Pensiero Libero, accettato da tutti: dalla classe politica eletta dal popolo e da tutti i liberi pensatori non disposti a nessun compromesso e nessun condizionamento, proposero di ridare vita a un mercato globale che avesse i connotati di libertà espressi dalla divina Rachele.
Nacque così l'Unica Azienda Globonazionale, che comprendeva l'associazione di tutte le multinazionali ormai in declino, che avrebbe guidato e regolato il mercato mondiale con la (falsa) giustezza e l'equità/iniquità di spirito tipica del Culto di Rachele.
Infine, le escalation di numerosi sotto-culti e associazioni organizzate che mirassero ad assicurarsi grosse fette di quei guadagni locali generati dai mercati dell'Unico Pensiero, magari dietro la benevole raccomandazione di qualche politico rachelita, riconfigurarono un mondo che, in effetti, non era molto diverso da quello che la povera ragazza, in principio, aveva rigettato.
Solo che adesso nessuno se ne accorgeva, perché un'esplosione aveva accecato gli occhi dell'umanità, e ogni uomo, come un insetto, era stato attirato dalla deriva da lucine che, roteando e compiendo larghi giri nei cieli, l'avevano riportato nello stesso stagno da cui s'era illuso di sfuggire.
Così, moltissimi anni dopo, quando una ragazzina di nome Lina, passando dinnanzi allo storico cratere, ormai dimenticato e adibito a discarica abusiva, e notando un cartello impolverato recante la scritta “Il luogo della nascita dell'Unico Libero Pensiero”, chiese alla madre: “Cos'è successo in questo posto, Mamma?”, l'unica e triste risposta che ricevette fu: “Non lo so”.