
A scuola si entra la prima volta piangendo e scalpitando, tentando di divincolarsi dalla stretta di un genitore fiero ed emozionato, quasi sempre sollevato. Ci si entra con lo sguardo ancora limpido di chi non è affatto stanco di giocare, e che ha preso ormai da tempo confidenza con gli oggetti del mondo e ha iniziato a plasmarli a modo suo, in un mutuo arricchimento segnato da scoperte emozionanti e deludenti incidenti di percorso in cui si fa strada a poco a poco il senso del limite. Se ne esce, se fortunati, dodici anni dopo. Altrimenti gli anni di detenzione possono aumentare fino a quattordici, e per chi è costretto o entusiasmato e vuole proseguire con l'università si arriva anche a venti, o più. Quasi la misura di un ergastolo all'italiana. Se ne esce del tutto cambiati: i giocattoli non esistono più o, se esistono, non sono più il mezzo preferito per conoscere il mondo, ma il primo rifugio per dimenticarsene.
Il mondo è diventato una cosa terribilmente seria. Il bambino, il primo giorno di scuola, se ne rendeva conto, e piangeva. Adesso che è diplomato, o laureato, sorride di quell'atteggiamento “infantile” (l'aggettivo è inteso né più né meno che come un insulto), con la consapevolezza di chi ha imparato tanto e deve guardare avanti per costruirsi un futuro, per “realizzarsi” in quella vita che ai suoi occhi era sembrata uno scherzo, e che adesso pare una trappola. “Realizzarsi” è uno dei termini correnti atti a designare il pieno inserimento nel regime di insensatezza instaurato dalla cultura capitalistico-consumistica: la forza creativa di un bimbo è completamente annientata, il suo reale contatto con le cose del mondo lobotomizzato, la ricerca di senso e il confronto con le grandi questioni che comporta l'essere in vita ridotti alle sole, meccaniche funzioni alienanti del lavorare e del comprare. Quel bambino che sarebbe stato capace di ascendere alle vette dei monti per guardare il cielo da vicino e solcare i mari in tempesta alla ricerca di terre sconosciute, per soddisfare l'infinita curiosità e l'inesauribile impulso al gioco, è diventato un uomo convinto di sapere già tutto ciò che serve, vecchio, disilluso, inetto, docile, incurabilmente noioso e annoiato.
Cosa è successo? Perché non gioca più come prima? E' intervenuta la scuola. Ecco una possibile testimonianza:
“A scuola ti insegnano un sacco di cose, purché tu faccia silenzio e parli solo se interpellato, purché tu smetta di giocare e non veda la tua famiglia almeno per mezza giornata, purché tu non abbia da ridire su ciò in cui vieni istruito, purché tu sia pulito, educato e obbediente. All'inizio può sembrare una fregatura, poi invece capisci quanto ci si guadagni. A scuola ti insegnano che il mondo è fatto a scale: in cima siede chi ha abbandonato per primo i giocattoli, si è messo a studiare e ha capito subito che la vita è una cosa seria, cioè proprio quei bambini con cui giocare non è mai stato un piacere; in basso, invece, stanno coloro che non sono ancora maturati abbastanza, che non studiano e non hanno ancora capito com'è fatta la vita. Esiste un modo preciso per misurare a che punto sei della scala: i voti. Più i tuoi voti sono alti, più vicino sei alla cima, e più vicino sei alla cima, più hai il diritto di sentirti migliore degli altri.
Studiare, essere educati e arrendevoli alle ingiunzioni dei professori è la strada maestra per arrivare in cima. Una volta in cima, se sei fortunato, puoi anche collaborare coi professori per far capire agli altri che dovrebbero essere tutti come te. In questo modo, imparare diventa una gara avvincente e molti si impegnano per raggiungere la vetta, spinti dall'ambizione o dall'invidia dei compagni.
Studiare all'inizio è noioso e proprio non vorresti farlo, ma poi ti abitui e anche se ti annoi cerchi di non farci caso. Salire la scala è troppo importante e rimanere in basso è motivo di umiliazione, di scherno, di quel senso di inferiorità che deriva dalla coscienza di aver fallito totalmente, di non valere nulla.
Anche nelle materie di studio c'è una scala, che è poi il metro con cui si misura il voto che meriti. Per prendere un voto alto devi essere a conoscenza di questa scala e devi saperla applicare. Lo studente modello è quello che senza conoscere da prima la scala specifica da adottare in una determinata occasione, riesce a fare la scelta che si colloca in cima ad essa. In ogni materia che si studia a scuola ci sono delle informazioni da ritenere giuste (quelle in cima alla scala) e altre da ritenere sbagliate (quelle in fondo), delle opinioni giuste e altre sbagliate, degli atteggiamenti giusti e altri sbagliati. Più scelte giuste collezioni, più i tuoi voti sono alti.”
Facciamo qualche esempio riguardante la situazione italiana.
La lingua giusta è l'italiano (ossia il volgare toscano, imposto come lingua nazionale al popolo - ? - italiano con l'unità - ? - d'Italia), e in cima alla scala si trova l'italiano dei manuali di grammatica. Ogni deviazione dalla norma è errore, opportunamente contrassegnato, nei temi, da sottolineature in rosso o in blu, a seconda della gravità. Parlare o scrivere come il contadino che conosce solo il dialetto o come Dante Alighieri è ugualmente errore, in quanto inosservanza delle regole grammaticali dell'italiano contemporaneo: matita rossa o blu, marchio d'infamia.
Il sistema politico giusto è la repubblica democratica fondata sul lavoro. Il lavoro è un'attività nobilitante dell'animo e costituisce la modalità primaria con cui l'uomo (ossia il cittadino, non essendo contemplata una differenza tra i due) si inserisce nella vita sociale e interagisce con altri uomini. Lavorare almeno otto ore al giorno è la norma, non lavorare è segno di pigrizia, immaturità, irresponsabilità, inettitudine. Rispettare le leggi è giusto e morale, non rispettarle è sempre sbagliato e immorale. Chi non rispetta le leggi va punito severamente con ammende in denaro o con più o meno lunghi periodi di reclusione in carcere.
Il modo giusto di comportarsi in società è quello che si rifà ai principi del buon senso comune. Chi non vive conformemente al buon senso, è da considerarsi anormale o squilibrato, e in quanto tale va corretto facendo ricorso alla psichiatria e a opportune cure farmacologiche.
La cultura giusta è quella occidentale, democratica e liberale, tuttalpiù socialista.
L'istruzione obbligatoria è un crimine perché tutto ciò non è né vero né giusto. L'istruzione obbligatoria è il più imponente baluardo che sia mai stato edificato a difesa della mediocrità, la ferrea egida temprata per annichilire un'umanità non più capace di prendere il mare in cerca di nuove americhe, non uomini, ma sordido impiegatume della vita. L'istruzione obbligatoria è la soluzione finale al problema che ha ossessionato da sempre i centri di potere: la massa, nella sua portata distruttrice e rivoluzionaria, corrosiva del vecchio e portatrice del nuovo, il temutissimo nuovo. L'istruzione è il vero potere dello Stato moderno, l'unico che riesca realmente a garantire il gattopardesco “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Da quando, in età moderna, lo Stato ha avuto bisogno di obbedienza totale a un solo potere centralizzato, la scuola e la religione si sono offerte come alleate fondamentali per imporre un'interiorizzazione del senso di colpa e del rispetto delle leggi, del “senso civico” e della morale della moderazione, strumenti necessari a garantire stabilità e prosperità al potere delle classi privilegiate senza ricorrere a un continuo stato di polizia. Finché tutti i bambini diventeranno uomini in un solo modo, l'unico previsto, la fisionomia delle classi al potere difficilmente cambierà nella sostanza. Finché i bambini saranno costretti ad andare a scuola, la cultura sarà odiata e snobbata, e tuttavia il disciplinamento delle coscienze continuerà. Finché i bambini saranno costretti a imparare, si ucciderà la loro creatività, il loro spirito critico, si recideranno alla base le uniche reali speranze di rinnovamento dell'umanità, o più semplicemente della società italiana. Non a caso, a ribellarsi con decisione alla mafia sono stati gli immigrati di Rosarno, non certo gli “istruiti” consiglieri regionali del meridione. Istruire non significa solo “far apprendere a qualcuno nozioni di una disciplina”, ma anche “dare istruzioni, direttive, consigli su ciò che si deve fare”: che sia un caso?
Quando si potrà ottenere un lavoro sulla base delle proprie competenze effettive e non di un curriculum che renda testimonianza del proprio periodo di detenzione e di canalizzazione forzata della mente lungo binari consentiti, forse la scuola non sarà percepita come una necessità così impellente.
Quando la scuola sarà gestita da libere associazioni private di cultura, forse il bambino, tra una partita a calcio e una al biliardino, stanco, avrà voglia di conoscere il mondo, per scoprire qualcosa di nuovo o per trovare nuovi stimoli per giochi più interessanti, o forse per conoscere altri bambini. In caso contrario, si sarà risparmiata una violenza e si sarà reso un servizio alla libertà che ognuno di noi dovrebbe avere, una volta nato senza averlo chiesto, di gestirsi la propria vita a modo suo.
* Non condivido neanche una parola o una virgola dell'intento, delle idee, dei contenuti di questo articolo. Ma, pur pensando questo, ritengo sia un articolo utile per far nascere un dibattito, che mi auguro sereno e pacato, attorno al perennemente attuale argomento scuola. Un saluto. L.F.
14 commenti:
In questo articolo viene offerta una visione dell'istruzione come strumento del potere, la quale ricorda non troppo vagamente il mito del buon selvaggio e successive concezioni freudiane. Eppure attualmente, soprattutto in Italia, dove stiamo assistendo quasi impotenti ad un disfacimento etico di grave entità, solo l'istruzione può stimolare la curiosità dei bambini, che in un periodo successivo dovrà diventare, speriamo nella maggior parte dei casi, coscienza critica. A mio giudizio, solamente la coscienza critica, la quale si fonda su una capacità d'analisi, che a sua volta non può svilupparsi in solitudine, porta alla reale libertà.
Caro Anonimo, ringrazio anzitutto del commento. Io credo che il mondo stesso che li (e ci) circonda debba essere considerato come primo, grande e imprescindibile impulso alla coscienza critica: non parlo del mondo inventato dei telegiornali (me ne guardo bene), dico il mondo degli oggetti e delle persone, dall'escremento in su. E credo anche che si possa (si debba) prescindere dalla scuola per come la intendiamo noi, e tentare (oggi, domani, fra cent'anni?) di lasciar spazio ai bimbi di ristabilire un contatto vergine con la realtà, che dalla scuola (a parte le eccezioni, rarissime, che lo sono nonostante questa situazione) viene sempre falsato.
Ci mancherebbe, l'articolo è interessante e spinge alla riflessione. Comunque, comprendo bene quanto tu affermi e lo rispetto, ma, secondo il mio punto di vista, la tesi si muove su un piano eccessivamente utopico ed ottimista nei confronti dell'umanità. Fatte salve alcune situazioni, sulle quali non è opportuno basare il giudizio, i soggetti vanno investiti di talune responsabilità, in modo tale che essi sviluppino una coscienza critica non solo "selvaggia" ed intuitiva, in quanto essa sarebbe utile in un sistema primitivo, ma anche una coscienza, che attraverso "un contatto vergine con la realtà" non si potrebbe ottenere.
Secondo me, sebbene possa essere un concetto che racchiude dentro di se un'essenza utopica, l'idea potrebbe essere realizzabile. Uno dei proclamati progressi storici è stata per l'appunto l'istruzione obbligatoria, che ha sconfitto (parzialmente) il flagello dell'analfabetismo (cosa relativa comunque, ogni epoca ha il suo analfabetismo) e reso la società migliore. Il problema è che la società non è migliorata affatto. Forse ha capito i concetti, ma chi li ha mai applicati?
Uno schema di istruzione libera è fornito proprio da internet: grazie a essa ognuno può liberamente accedere a qualsiasi fonte di informazione e istruirsi su ciò che vuole. La domanda che mi pongo, dunque, è: e se l'uomo non avesse bisogno della rigidezza delle istituzioni, ma solo delle risorse, per poi avvicinarsi ad esse dall'angolazione preferita? Invece di costringere lo studente a studiare un filoso invece che un altro, lo si mettesse dinnanzi a una sontuosa biblioteca piena di tomi e approfondimenti su tutti i filofosi: a lui la scelta su cosa apprendere o no, secondo la sua connaturale vocazione?
L'uomo non ha bisogno di imparare a imparare, perché gli strumenti dell'apprendimento son fusi nel suo DNA dalla nascita, ha solo bisogno delle materie prime su cui lavorare, che spesso mancano o sono corrotte. My two cents.
Per quanto mi riguarda, non sono concorde con la tesi dell'articolo che, come giustamente esponeva l'utente anonimo che mi precede, "si muove su un piano eccessivamente utopico ed ottimista". Posso essere concorde con il fatto che l'istituzione scolastica, per come è organizzata nella nostra epoca, non rappresenti un veicolo per la promozione della creatività intellettuale, emotiva e perchè no, anche civica. Sicuramente non è portatrice sana di senso critico. E di questo, sono la più feroce sostenitrice. Tuttavia l'ipotesi di una anarchia culturale non mi sembra allettante: per quanto si possa odiare la "scuola" è pur sempre un mezzo per permettere ad ogni individuo di entrare in contatto con una serie di strumenti e soprattutto di linguaggi in senso letterale e non. Questo attenua le disparità di classe ed in qualche modo (anche se nella realtà non avviene) è il mezzo primo per promuovere un sistema meritocratico.
Non ci serve la cultura per i pochi. La cultura per i pochi già c'è e produce roba a mio avviso abominevole, intrisa fino all'osso di accademismo stantio. Parliamo dell'Università che non è di certo obbligatoria, ma mi sembra sia "la fabbrica di lobot" (cit.) più grande della storia moderna. Non è necessario abolire la possibilità di poter imparare a leggere e scrivere, sarebbe sufficiente mettere tutti nelle condizioni di essere realizzati e di vivere attraverso le cose per cui si dimostrano delle attitudini. Ma questa è utopia sul serio.
Indubbiamente il contenuto dell'istruzione scolastica è "etero-imposto", è frutto della scelta di uomini che come dici tu sono ben conformati allo schema predisposto dallo Stato quale strumento del suo potere. Tuttavia, mi chiedo se il buon senso che tanto discrimini non sia preferibile alla naturale tendenza umana all'egoismo e alla sopraffazione. Se anche tra bambini può nascere la competitività e la voglia di prevalere, non è forse più ragionevole pensare che tale atteggiamento sia innato nell'uomo e non frutto di sovrastrutture interne?
Prendi il tuo bambino, lasciato libero di prendere il mare e salire sulla montagna, anche dopo avere scoperto la meraviglia del mondo, penso, ahimè realisticamente, che tornerà a riva o scenderà a valle e lì avrà voglia di superare gli altri...ma lo farà con la forza e la violenza, mentre gli altri suoi amici "istruiti" gli sguinzaglieranno contro avvocati, polizia e una buona dose di critiche dell' "istruita" opinione pubblica.
Fino al virgolettato della testimonianza fittizia, da brava bambina che sono, mi aveva ammaliato, questa riflessione. Poi, però, il tenore dell'argomentazione, che mi sembra volutamente provocatorio da certi passaggi, mi ha risvegliato qualche idea.
La scuola non sottrae solamente. Direi, al contrario, che dona, principalmente. Fornisce gli strumenti fondamentali di comunicazione (su questo punto mi ha preceduto V.S.) perché la civiltà non debba ogni volta ricominciare dalla preistoria. Per quanto sia possibile individuare miriadi di falle soprattutto nel sistema delle scuole superiori, non trovo che la conquista di un'istruzione pubblica per tutti sia un disvalore. Penso che il fatto che la base d'istruzione sia uguale per tutti sia un valore, non un appiattimento. Certo, la scuola è uno strumento potentissimo in mano allo Stato, che non sempre lo gestisce in buona fede, ma abolire questo impianto comune sarebbe come abbattere alla radice un albero che ha una malattia delle foglie.
Mi rendo conto che l'ambizione esposta dall'articolo sarebbe quella di superare il mio o i vostri piccoli "io penso" per approdare a un relativismo spontaneo e definitivo. Ma credo che anche l'ambizione al relativismo sia un "io penso", e che non possa rimanere che un'ambizione teorica, peraltro.
Ringrazio gli out-istici per la riflessione che mi hanno stimolato. Fara :)
7) Non ho poi mai concordato con la carrellata di stereotipi che segue, pur avendo frequentato quattordici anni di scuole. Le mie maestre mi insegnarono che tutto è relativo.
8) Se essere uguali significa essere tutti mediocri, viva la mediocrità. E chi è poi un genio? Napoleone? Aristotele? Machiavelli? D'Annunzio? Stalin? Einstein? Hitler? Newton? E perché li consideriamo dei geni? E in cosa?
9)Nella società di massa, l'istruzione è inevitabilmente di massa. Lo squallore di tale modello sociale è davanti ai nostri occhi, ma non è imputabile all'istruzione di massa. Anzi, ritengo che se le masse fossero più istruite (non più colte, né più irregimentate), il loro potenziale rivoluzionario sarebbe irrefrenabile (come lo era nel momento di maggiore diffusione della cultura in Italia: gli anni '70).
10)Il vero strumento di potere degli stati non è la diffusione della cultura, ma l'attenta gestione dell'ignoranza collettiva (vedi riforme scolastiche dalla Berlinguer in poi).
I consiglieri del meridione non si sono ribellati proprio per scarso senso civico, per egoistico individualismo e per rassegnazione, non per la loro mirabolante cultura...
11) Visto che i rapporti umani sono determinati da convenzioni, soprattutto in una società di massa, bisogna accettare il curriculum vitae, oppure procedere ad una costruttiva critica alla società di massa nel suo complesso.
La libertà di ognuno di "gestirsi la propria vita a modo suo" non è raggiungibile in nessuna società complessa, dal mesolitico in poi... E inoltre sono dell'opinione che la vera libertà sia quella di poter interagire con gli altri, di confrontarsi e di imparare il rispetto reciproco (e, perché no, arrivare ad amare l'umanità). La VERA libertà è partecipazione, non egoistico isolamento dal resto dell'Umanità...
Comunque, complimenti!
Vorrei ancora discutere con te di questo tema, perché lo trovo importante, e perché il confronto, anche se non costruttivo, è sempre utile. Riguardo alla forma di questo confronto, scusami se adotterò uno stile da dirigente del partito soci...aldemocratico russo, ma lo trovo il modo migliore per costruire e confutare teorie socio-politiche.
1) Da quanto ricordo, il primo giorno di scuola non mi aggrappai ai miei genitori e non piansi. Non ho la pretesa di dire che non fossi emozionato, disorientato e forse anche preoccupato. Tuttavia, conoscendo quasi la metà delle persone della mia classe, mi unii a loro e smorzammo l'emozione parlando e giocherellando come al solito...
(è una critica poco seria, lo so, ma ci tenevo a sottolinearla...)
2) Non trovo che l'aggettivo "infantile" sia offensivo. Se è usato per delineare una caratteristica di un individuo adulto, può essere inteso come "Immaturo", ma riferito ad un bambino può avere connotazioni addirittura affettuose e vagamente nostalgiche...
3)Trovo la tua analisi della tragica maturazione degli individui sostanzialmente corretta. Ma ritengo che non sia imputabile all'istruzione pubblica, bensì all'istruzione. Perché un lord inglese istruito amorevolmente da un precettore, a dieci anni giocava con i soldatini, e a venti aveva voglia di commettere massacri di massa comandando eserciti?
Ritengo che ogni società complessa, a prescindere dal suo sistema educativo, imbrigli la fantasia e la volontà del singolo verso i propri fini...
4) La tua descrizione del discorso ipotetico fatto dal genitore al proprio figlio è carina, incisiva, ma, a mio modesto avviso, un po' troppo suggestiva per poter essere realistica.
Ti riporto l'esempio della mia esperienza (perché, al contrario del Gorino, sono convinto che l'esperienza empirica personale sia un ottimo metro per la comprensione del mondo, anche se, ovviamente, non l'unico): gioco ancora al computer, a giochi da tavolo ecc. e ne vado discretamente fiero. Non mi limito a giocarci: li modifico, li personalizzo o, a volte, ne invento di nuovi. Secondo me, rimangono un buon terreno per svagarsi e testare la propria inventiva.
Nella mia classe delle elementari i dibattiti e i nostri interventi erano incoraggiati, ovviamente purché non sfociassero in un casino...). Non ho mai puntato ad essere il primo. Ho sempre puntato ad essere me stesso, e i miei genitori mi hanno incoraggiato a perseguire questa strada.
Riguardo ai voti, ti citerò l'esempio della Scuola giapponese. Fino a undici anni, i bambini giapponesi sono liberi di schiamazzare in classe e non ricevono voti. Quando devono accedere alle medie di solito hanno studiato pochissimo prima (in Giappone vige l'uso di far comportare i bambini come essi vogliono) e vengono schiacciati dalla mole di conoscenze che devono acquisire.
Riguardo alla noia derivata dallo studio, ritengo che essa sopraggiunga quando lo studio è imposto, e non condiviso. Nella mia concezione di società, il sapere dovrebbe essere trasmesso da una generazione all'altra. Ricordo ancora benissimo l'Iliade e le dodici fatiche di Ercole perché mi furono raccontate da mio padre a quattro anni...
E poi non concordo affatto con la parte finale del discorso. Alcune nozione sono indiscutibilmente false. Dire che la Divina Commedia l'abbia scritta Omero è una nozione sbagliata, a prescindere dal sistema di istruzione adottato.
5)Gli stati sono delle convenzioni, così come i popoli, le lingue, perché ogni rapporto umano, perfino la guerra, si basa su delle convenzioni...
6) Il giudizio della matita rosso-blu non è un marchio d'infamia: è una convenzione per conoscere le competenze dei singoli.
Comincio ringraziando tutti per i commenti e salutando cordialmente Fara, sperando che si ricordi di me. Risultandomi evidentemente di difficile attuazione una risposta per ogni commento, proverò almeno a dare (grossolanamente) una risposta a ogni nucleo di critiche di cui il mio articolo è stato fatto oggetto. Spero di non dimenticare nulla.
Evitiamo tutti i fraintendimenti, che sono stati sicuramente corroborati dalla forma poco logica e piuttosto retorica. (Non mi vergogno di essere retorico se ciò è funzionale a una provocazione, quando la provocazione è il primo passo verso una riforma radicale del sistema scolastico italiano.)
Non ho mai auspicato una cultura d'élite: ce l'abbiamo già. Non ho mai negato che esistono le eccezioni (poche o tante, a seconda dell'ambiente), né credo che la scuola sia solo un togliere e mai un donare. Non ho mai attaccato la possibilità di tutti d'istruirsi, né semplicemente la scuola pubblica in favore della privata. Ho attaccato l'istruzione obbligatoria, pubblica o privata che sia. Bisogna sottolinare che non m'importerebbe nulla di abolire la scuola pubblica e lasciare esercitare le stesse funzioni alla scuola privata (mi pare che se ne stiano già occupando al governo). Fino a quando la scuola privata sarà (il più delle volte) una brutta copia, per giunta classista, della scuola pubblica, essa non potrà servire a scopi come il mio. Bisogna abolire la scuola dell'obbligo, con tutto il suo armamentario di programmi scolastici obsoleti, pagelle e voti in condotta.
Non ho mai avversato la cultura, il che sarebbe in evidente contraddizione col mio mestiere (ammesso che così vada chiamato). Se gli oggetti e le persone devono essere il primissimo stimolo alla comprensione della realtà, è chiaro che ce ne devono essere altri più complessi: serve una presenza capillare sul territorio di associazioni di cultura, private ma incentivate (senza nulla in cambio) dallo Stato, dotate di sistemi che garantiscano il diritto (si badi bene, non il dovere) allo studio. Ciò significherebbe lasciare ai privati la possibilità di insegnare come e cosa vogliono, ma soprattutto ai cittadini di sfruttare gli strumenti offerti (biblioteche, audioteche, videoteche, emeroteche, pinacoteche, collezioni e allestimenti museali di qualsiasi tipo) e di richiedere particolari manifestazioni culturali o ricerche più o meno settoriali.
E' importante far presente che lasciare (quasi) tutto ai privati non significherebbe creare disparità, ma varietà (si veda al proposito il mio primo articolo in Out-ismi, http://outismi.blogspot.com/2010/01/lostacolo-della-diversita.html). Il confronto con il diverso, lo stimolo alla creatività, la messa in discussione di tutto (anche della paternità della Divina Commedia, sì, qualora ciò servisse a rendere ancora più chiaro che l'ho scritta io) sono le uniche speranze che abbiamo di rigenerare un'umanità (sì, è minuscolo) in putrefazione, insopportabilmente vecchia e mai così tanto miseramente piccolo-borghese. Non ce l'ho (lo dico ancora una volta) con la cultura, ce l'ho con la cultura unica imposta (quella borghese, via via più imbarbarita) da scuola e tv. Pasolini nelle sue Lettere luterane ricorda l'espressione marxista di “genocidio culturale”, arrecato (e ormai portato a compimento del tutto) a qualsiasi oasi particolaristica (nel senso migliore), per cui, ad esempio, il comunismo (a essere fortunati) si riduce quasi sempre, nella mente di chi ancora lo coltiva, a una semplice redistribuzione delle ricchezze, che neanche lontanamente si sogna di mettere in discussione i valori e il modo di concepire la vita della borghesia trionfante. Il linguaggio di cui alcuni di voi parlano è quindi il linguaggio del potere, che è ora e mai come ora un potere borghese, capitalista, nichilisticamente consumista.
Trovo R. G. un grande ipocrita, nonchè falso, bugiardo e approfittatore.
Trovo ridicolo e meschino diffamare qualcuno in forma anonima, peraltro in un italiano approssimativo. Mi dispiace per lei.
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