2010-10-02

The promise


Sposto le tende. Seguo la musica. Qualcuno sta suonando un pianoforte. E, quasi impercettibilmente, canticchia. Ho delle scarpe nere, lucide, quasi mi ci specchio. Non ricordo, io, qui, non so.

La campagna era scivolata via, avvolta dalla nebbia. Il pullman l’aveva attraversata, violata, dimenticata. Lei, inaspettata osservatrice, contro quel finestrino. Vedeva il mondo scorrere. Lo vedeva sfumare nella velocità. Lei era lì, ma non si sentiva. Non riusciva a percepire se stessa. Si sentiva vuota e vaga, annientata. La giornata era passata, dandole l’illusione di normalità, di stanchezza. Lei era passata come la giornata, era passata come il pullman in mezzo alla campagna. Era passata. E di lei non era rimasto nulla. Si sentiva persa. Guadava fuori dal finestrino e non capiva i suoi sentimenti in quel momento. Era stata felice? Si era sentita sola? Che cosa aveva provato? Che cosa provava? Aveva tanta voglia di piangere e non capiva perché. Aveva tanta voglia di rifugiarsi in inutili conversazioni con persone che non c’entravano nulla con i suoi problemi. Si sentiva persa. Tutto qui. E non aveva il coraggio di affrontare quella realtà da sola. Voleva l’appoggio di qualcun altro. E improvvisamente si mise a piangere. Improvvisamente. Senza capire il perché. Il pomeriggio era presto diventato sera. La luce era scomparsa. Le sue scarpe erano mute sull’asfalto. Continuava a percepire quella sensazione di vuoto. Era uno zero in quel momento. Poteva essere tutto. Forse, in realtà, non era proprio nulla. La guancia era la stessa. E si poteva quasi azzardare un “anche la lacrima era la stessa”. Lenta le scivolava fino alle labbra, per poi essere assaggiata da una lingua indifferente. Gli occhi spenti cercavano risposte fra i volti e i cieli delle foto attaccate al muro. Billie Holiday cantava la danza della lacrima sulla pelle olivastra. Già, anche la pelle era lontana dalla perfezione troppo intravista altrove e mai toccata con mano familiare. Era un qualsiasi giorno d’inizio dicembre e lei lo aveva visto dappertutto. Fra il candore dei simboli di più e meno infinito s’una lavagna scura, fra le curve degli alberi domenica sera, fra le lenzuola del suo letto. L’aveva desiderato per tutto il giorno, e non riusciva a non pensare alla sua pelle liscia, alle sue mani che sicure s’insinuavano in ogni parte del suo corpo. Con la sua intensità d’amante l’aveva sconvolta, fatta vibrare intimamente. Il paradiso era apparso, giustiziere nella notte, e l’aveva lasciata ansimante e appagata. E la pelle fremeva dal desiderio di essere di nuovo accarezzata, annusata, assaggiata, chiamata. Aveva voglia di lui. Aveva voglia del suo modo di gestire il suo corpo e quello di lei. Aveva voglia di essere penetrata con violenza per poi essere ammirata, nella calma dei sensi di lui, da occhi densi d’amore e da mani divine. E l’oro della pelle di lui stampata nella sua mente, sui suoi seni, nel suo sesso. Le labbra. Da qualche giorno, esaltate delicatamente da tenui rossi ciliegia, l’espressione più intensa del suo animo, era rappresentata dalle labbra. Deliziose morbide labbra di donna. Già, una donna. Però, dove? Nell’animo? Nella maturità delle scelte ( o delle non scelte)? Nella sensualità dell’espressione dei suoi desideri? Nel sentirsi, in rapporto a se stessa? Perché si ritrovava la sera a piangere lentamente, quasi nascondendoselo? Billie non aveva di quei problemi. Ripeteva all’infinito le stesse parole d’amore. Ma n’era convinta? Come poteva esserne così sicura? Se guardo intorno a me vedo solo lui. Ma se chiudo gli occhi che succede? Io, dove sono finita?

(Billie era ritornata a cantare. E lei era tranquilla. Lontano si sentiva il fruscio del giradischi. La voce era calda. Sul muro la foto di Baudelaire la fissava con severità. Aveva voglia di colorare. Di annusare il legno dei suoi pastelli per poi studiarne le sfumature. La giornata era calda e luminosa. Billie urlava sottovoce la sua solitudine. E lei incartava con le parole la sua vita. Il suo amore per lui e l’angoscia di ritrovarsi davanti ad uno specchio, e non vedere nulla, se non una densità chiara ma indifferente. Si era cercata fra le pareti lucenti di una stanza divina, si era cercata fra i corridoi e i pontili di una nave lunghissima. E il cielo. Già, senza il cielo nulla aveva più valore. Aveva voglia di ballare. Aveva voglia d’indossare un abito morbido e svolazzante. E di ballare tutta la notte. Forse proprio sul pontile di quella nave. Con tutte quelle luci deliziose).

Si sentiva dolcemente coricata s’un letto di petali morbidissimi che l’avvolgevano, seducenti, ricordandole ciò che di più prezioso custodiva la sfera d’argento denso e luminoso che era la sua anima: una profonda voglia di amare la vita. E tutto l’avvolgeva profondamente trasportandola in un vortice di sensazioni estreme. Tutto, le luci di Natale, l’acqua di quella città, i tramonti su quel cristallo, le vetrine con le decorazioni dorate, i pranzi in compagnia, le vecchie librerie piene di vecchi libri inglesi, stropicciati, vissuti, amati, ricordati, dimenticati. Tutto ciò che le era permesso di vedere, lei lo conservava stretto nel suo cuore, lo assaporava in quel possedere, e lo incartava con spesse tele di polvere di stella. Ma soprattutto aveva voglia di ballare deliziose canzoni jazz, dolci, lente. Because I’m in heaven when we’re together. Ballare, ballare, ballare, solo ballare, guardarsi negli occhi, baciarlo dolcemente, intensamente, fino alla fine della notte, sussurrandogli parole dolci, raccontandogli storie fantastiche, storie vere, storie che un giorno saranno vere. Vorrei ballare, fino a stendermi esausta s’un letto, dove, poi, riprese le forze, fare l’amore con lui, sussurrandogli parole dolci, ricordandogli tutte le nostre storie, ballando con lui, fissandolo negli occhi, dicendogli che lo amo in un modo infinito ed eterno. E in quella terrazza coperta, ci sarebbe un piano. Io mi siederei, lo guarderei negli occhi, e gli suonerei Blue Moon e tutte le canzoni jazz che possono rubargli dal volto un sorriso, perché il mio cuore si espande nella sua felicità. E canterei per lui, farei boccacce, performances improvvisate. Ma soprattutto starei zitta. Mi alzerei, mi aggiusterei il vestito con i lustrini accecanti. E lo amerei in un modo disperato. DISPERATO.

Sposto le tende. Seguo la musica. Qualcuno sta suonando un pianoforte. E, quasi impercettibilmente, canticchia. Ho delle scarpe nere, lucide, quasi mi ci specchio. Non ricordo, io, qui, non so. Il piano continua tranquillo, la voce si fa sempre più sicura, ignorandomi. Intravedo il piano, scostando la tenda di pesante velluto blu. Che voglia di suonare. Il motivo del piano è sempre più audace e accattivante. Ci vorrebbe una tromba. Non fa freddo. Mi tolgo la giacca. Ci sono delle luci, sul cornicione del balcone. Esco. E lei è lì. Lei, è lei che sta suonando il piano, è lei che canticchia. E adesso ha smesso di suonare e si agita sullo sgabello, ballando su chissà quale musica lontana. E accompagna i suoi movimenti con la voce. Porta un lungo vestito scuro, ricoperto di lustrini che ad ogni suo movimento, riflettono le luci del balcone, danzando anche loro. Deve essere proprio allegra, si è messa anche a fischiare. La guardo, incuriosito. La vedo cambiare musica nella testa. Ora si muove lentamente, si accarezza il corpo. Chissà chi sta cantando nella sua testa. Mi domando il perché dei suoi sospiri. Mi domando il perché del vestito scollato. Sulla schiena, sul petto. Mi chiedo il perché della sua pelle olivastra. E i capelli scuri, neri. La guardo, e sento che non potrebbe essere più lontana. La guardo. Ma io, cosa ci faccio qui? Decido di avvicinarmi. Passo dopo passo, comincio anch’io a sentire la musica. Un’intera orchestra, suona jazz. La vedo ballare, sento anch’io la musica, la voglio. Sento di volerla. La voglio con la sua musica che solo chi le sta vicino può sentire. La voglio con la sua pelle scura, coi suoi capelli neri, e col suo corpo che sembra promettere solo intensità. Le sfioro la spalla. La pelle è morbida. Lei si gira. Mi guarda. I suoi occhi sono neri. Dio, come sono neri. Le sue labbra sono dense di sensualità, quasi mi chiamano. Stavo pensando a te, mi chiedevo come mai tardassi tanto. Mi ha parlato. La guardo sorpreso. Vuoi ballare con me? La stringo fra le mie braccia. Potrebbe non esistere, tanto è assurdo che io sia qui, con lei, che mi aspettava. Ma non m’importa. Se è l’unico modo di esistere, qui con lei, allora scelgo di essere anche solo un personaggio di un suo racconto. Sento di amarla. Sento di conoscerla, di volerla scoprire, nuova, fragile, speciale, sensuale, semplice. Lei. Balliamo, balliamo, amore mio. Resta qui con me. Siamo solo dei pensieri. Stringimi. Ti prego. Il sogno potrebbe finire, e tu svanire nel nulla. Stringimi, sento di volere solo questo. Cosa ne sarà di noi domani? Siamo così fragili, così leggeri. Lasciati vivere da me, così da impararti a memoria per sognarti ancora, e ancora, e ancora.

1 commenti:

Roberto ha detto...

...sa di incantevole pregievolezza Martosa ;) riconoscerei subito l'autore dopo i primi 2 righi.. bella davvero =)

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