2010-06-30

Un tipo ha ucciso suo padre

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A tavola dopo una lite banale ha preso un coltello e gli ha tagliato la pancia. Schizza un po’ di sangue su una anonima pasta al pesto. Poi doveva far sparire il cadavere. Lo tira giù dalla sedia, lo trascina per il pavimento sporcando di sangue il corridoio, lo butta nel water e poi con uno spazzolino da cesso, cioè uno spazzolino più grande del normale, grande quanto uno scopino del cesso, tentatava di mandarlo giù, di sotto dalle tartarughe ninja,lamentando tra sé di aver schiacciato il tasto col serbatoio da 3 litri anzicchè quello da 12:imputava a questo errore la non discesa del grassone rompiscatole giù a mangiare pizza con Lucifero. Allora lo tirava su, aveva i capelli bagnati. La camicia sporca di sangue. Gli occhi vitrei. La bocca intarsiata di bava. E giù per terra di nuovo con un tonfo della testa e sangue pure da là. Pesava sempre di più quell’ammasso di trippa che era costretto a portarsi per la casa nel tentativo di trovare una soluzione per lo smaltimento. Smaltimento rifiuti sacco dell’immondizia nero quello grande delle manifestazioni ecco la soluzione adesso lo prendo ecco sì il cassetto là in basso no quello sopra non il rotolo di alluminio ecco l’ho trovato ma sto sacco di patate ci sta quà dentro o non ci sta ecco non ci sta ora come me ne sbarazzo che noia ecco era meglio se stavo fermo e continuavo a guardare tg1 ora no uffa era meglio ammazzarlo forse del tg1 non lo so che palle oggi pomeriggio poi devo uscire ma qua devo sbarazzarmi non posso chiamare la ditta smaltimento dell’altra volta vogliono un sacco di soldi per smaltire nella vasca sto sacco di merda ma mi aveva rotto mi chiederà un movente la polizia se mi becca non lo sopportavo che devo dire ma perché non lo so oggi pomeriggio partita di pallavolo femminile e poi tanti baci alla tipa che ho incontrato ieri ma non mi vuole mi da una cinquina. Niente, nel sacco non entrava. Decise di fare una autopsia. Non ricordava dove fosse il fegato. Taglio a caso lì, taglio a caso là, sembrava un pollo scuoiato e le interiora una poltiglia informe. Non gli dava una logica sequenziale nemmeno nell’apparato digerente o dirigente o come diavolo si chiama, tranne per gli organi più grandi, unici ben distinguibili in quel marasma di sangue e ripiegature e ripieghine e pieghe e ripieghette dei tessuti (di lino). Chissà come cazzo fanno i miei amici che studiano medicina a impararsi ste cose poi che noia studiarsi cinquecentomilamigliaia di ste robe già mi annoia chissà perché dovevo controllare il fegato ah sì per vedere dove dovrò operarmi quando avrò bruciato tutto con l’alcool e invece forti le ossa mi piacerebbe comprare uno scheletro per il prossimo halloween ora vediamo solo che mi annoiano ste feste private facciamo una cosa tutti insieme al mare ma per il mare c’è troppo freddo meglio la montagna ma la montagna uffa non c’è posto ce n’è sempre una poi certo che mi annoio e sono annoiato da sti oggetti nel mondo. Realizzò che l’unica soluzione era prendere in mano il telefono e chiamare la ditta di esperti dissolutori di cadavere. Arrivati. Di nuovo la strada per il bagno, sangue nel corridoio e, stavolta, gettato nella vasca come un tonno appena pescato di 40kg con contusioni plurime al dovunque. Il sottofondo del barbiere di Siviglia -Ah, bravo Figaro! Bravo, bravissimo; fortunatissimo per verità! Pronto a far tutto, la notte e il giorno sempre d’intorno,in giro sta- , una melodia arabeggiante e un dinamico odore di spezie indiane, fastidioso più delle budella rivoltate del trippone alle docili orecchie dei professionisti di cadavere, abituati in realtà al pesce crudo delle loro zone. Taglia di qua e taglia di là, taglia su e taglia giù, bravi bravissimi e Puf. Il cadavere è disciolto nelle fognature. E chi lo sa, forse il sangue diventerà il pomodoro sulla pizza di splinter.

2010-06-25

Cronaca di Giacomino.

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Stava seduto su una sedia di legno scuro il buon Giacomino. La testa era china sulle carte ma gli occhi, gli occhi nuotavano altrove. Dove? Sulla città: strade finestre tetti nuvole e campane. C'aveva il suo angolino, il buon Giacomino, e da lì poteva guardare il mondo. Che male c'è? Eppure si sentiva in colpa, povero Giacomino, perché doveva studiare e gli pareva che guardare dalla finestra fosse una distrazione inutile. Da scemi. Lui però lo faceva lo stesso, di sottecchi, si convinceva di studiare e in effetti la postura era quella, ma gli occhi, dicevo, nuotavano altrove.

Le automobili sfrecciavano sulla statale di periferia. Veloci, troppo veloci, non c'era il tempo di chiedersi chi fosse al volante che l'auto spariva, come un'occasione perduta. Ogni tanto Giacomino immaginava di trovarsi dentro una di quelle scatolette, su uno dei sedili posteriori, ad ascoltare le storie che vi si narravano, ad intrecciarne di nuove, a lasciarsi portare chissà dove, basta che ci fossero le curve. Salvo poi ridestarsi d'improvviso dalle fantasticherie, rimproverarsi e tornare con più impegno di prima sulle carte.

E che dire di tutte quelle finestre? A sera erano come lucciole in un mare di stelle e bagliori dispersi nel buio immenso. Dietro ogni finestra una, due, tre storie da raccontare, persone da conoscere e salutare, dieci cento mille ricordi da annotare, tanta umanità da squadernare e poco tempo, poche gambe, solo due, e una bocca sola per parlare e per sorridere. Povero Giacomino, era solo uno e voleva vivere mille vite. Ma che ci poteva fare se non gli bastava la sua?

E anche studiare, mica era per gioco. No, studiava perché era curioso, e perché credeva che sfogliare un libro fosse un po' come sfogliare l'anima delle persone, e chiedere, chiedere sempre, insistere e dire “racconta, racconta ancora!”. E poi lo sapete quanti libri ci stanno in una stanza? Non aveva bisogno di alzarsi e uscire, bussare e chiedere, il buon Giacomino. Lui stava seduto e leggeva, perché in fondo era anche un po' pigro. E ogni tanto alzava lo sguardo così, di nascosto a se stesso, e guardava le cose.

Certo avrete capito che il buon Giacomino era timido. Aveva una gran paura di parlare con la gente, soprattutto quelli della sua età, perché aveva gli occhiali spessi, un po' di gobba, si capiva che era un secchione. Qualche volta pronunciava male le parole, per la fretta e l'emozione, e allora non lo capivano e lui sentiva di avere le orecchie rossissime per la vergogna. Perciò spesso stava zitto e ascoltava soltanto, come si fa coi libri, che raccontano e basta e neanche ti chiedono come ti chiami. Eppure il buon Giacomino ci provava a parlare. Aveva le sue idee, forse non le migliori, ma erano sue, e non sempre si trovava d'accordo con la gente che sentiva discutere. Ma ogni volta che ci provava, il povero Giacomino non sapeva come fare, non riusciva mai a capire quale fosse il momento giusto, e si meravigliava del tempismo con cui gli altri riuscivano ad alternarsi nel prendere la parola. Gli veniva in mente di alzare la mano come a scuola, poi ci pensava su, si sentiva stupido, e si rassegnava ad ascoltare come sempre. Forse era per questo che gli piaceva tanto quella canzone quando diceva “tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole”, e se l'ascoltava gli batteva forte il cuore e gli veniva da piangere.

Un giorno Giacomino stava andando a fare la spesa al supermercato. Davanti l'entrata c'era un parcheggio, e tutto attorno al parcheggio c'erano tanti cipressi, fiori ed erbette. Appena giunse sul limitare dello spiazzo Giacomino vide una bimba cadere a terra mentre correva. La soccorse, le sciacquò il ginocchio sporco di terra e di sangue a una fontana pubblica. Poi le comprò dei cerotti, la disinfettò, gliene mise uno e le regalò gli altri. Qualche giorno dopo tornò a fare la spesa nello stesso supermercato, e quando uscì carico di buste rivide quella bimba correre e cantare, con il cerotto ancora al ginocchio. Avvicinandosi la ammonì di smettere di correre, se non voleva ancora farsi male. La bambina si fermò, lo guardò, lo riconobbe. Sorrise e riprese a correre, stavolta verso gli alberi. Giacomino scosse la testa e continuò ad attraversare il parcheggio, diretto a casa. La bimba, però, fu subito di ritorno e Giacomino s'accorse che portava fra le dita una splendida margherita. Senza dir nulla, la bimba gli si appressò e gli infilò la margherita in una delle buste, sorridendo. Giacomino la ringraziò con un riso leggero e tornò a casa. Poggiate le buste su due sedie, cercò e trovò il fiore e lo accarezzò, ammirandolo. Provò a farlo vivere il più a lungo possibile, ed era contentissimo di poterserlo guardare tutte le mattine in cucina, mentre faceva colazione. Ben presto, però, la margherita iniziò ad appassire e Giacomino decise che sarebbe diventata il suo segnalibro: così si sarebbe ricordato spesso del bel gesto della bambina e magari sarebbe andato a trovarla ancora nel parcheggio del supermercato.

Non si curò più di trovare il posto dove comprare la carne, quello dove prendere i biscotti e il pane o quello dove risparmiare sugli yogurt, e anzi cominciò a frequentare solo quel supermercato dove aveva incontrato la bambina. Aveva in mente di chiederle come si chiamasse e di farsi raccontare quanti anni avesse e che scuola facesse, quale fosse la sua materia preferita e chi fosse la sua migliore amica. E poi voleva regalarle un altro fiore, magari uno di quei bellissimi gigli arancioni che crescevano nel giardino dei suoi vicini e che avrebbe persino rubato per lei. Ma la bambina non si fece più vedere. Passarono settimane e poi mesi, e Giacomino soffriva sempre di più quel non poterla reincontrare, e si chiedeva che fine avesse fatto, se si fosse fatta male ancora correndo, se si fosse trasferita in un'altra città, se fosse morta o viva.

Giacomino iniziò a maledirsi per non averle chiesto subito il suo nome, per non essersi messo in condizione di rintracciarla, adesso che si sentiva più solo che mai. Col tempo, però, Giacomino ebbe modo di riflettere tanto, e comprese che quell'esperienza gli doveva servire da lezione. Capì che talvolta in un gesto può esserci più che in tutti i libri che si possono leggere, e che quando succede una cosa bella bisogna scoprire come si chiama per poterla cercare ancora. Così il buon Giacomino non la smise più di chiedere i nomi delle persone, e poi imparò anche a chiedere di cosa si interessassero e quale fosse il loro colore preferito, se credessero negli alieni e tanti altri dettagli appassionanti. E quando poteva, regalava un giglio arancione alle persone a cui voleva bene. Dopo un po' fu costretto a comprarlo, perché il vicino si accorse che glieli rubava e andò su tutte le furie. Certo non smise di leggere, e anzi scoprì che alcune persone erano molto colpite dalla sua grande capacità di avere opinioni intelligenti e che molte di loro ne possedevano a loro volta, e scambiarsele era molto entusiasmante. Né si può dire che abbia conosciuto solo persone gentili come quella bambina, ma fu contento quando si rese conto che non era poi una così gran disgrazia, dal momento che in questo modo apprezzava ancora di più chi lo trattava bene. Comprese che il mondo non è come lo descrive la televisione, e che i libri non riescono sempre a dirti tutto quello che c'è da dire, e infine che tutti quanti, anche se non sembra, sono un po' timidi come lui e hanno tanta paura di sbagliare.

Tenne per sempre quella vecchia margherita come segnalibro e ogni tanto pensò, tenendola fra le dita come aveva fatto una volta una bambina, che se non era riuscito a conoscere la persona che gli aveva cambiato la vita in quel modo, allora c'era davvero tanto ancora da scoprire e non se ne sarebbe mai stancato.


2010-06-18

Rubrica settimanale:_Parole rimosse_

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Sciascia Alien
da "I Siciliani", maggio 1983

I siciliani più famosi degli ultimi trenta-quarant'anni sono stati il bandito Giuliano, l'onorevole Mario Scelba, il principe Tomasi di Lampedusa, il premio Nobel Quasimodo, l'arbitro Lo Bello, lo scrittore Leonardo Sciascia e Pippo Baudo. Non mettiamo nel conto Elio Vittorini e Vitaliano Brancati, i quali furono grandi ma non certo altrettanto famosi. A seconda dei punti di vista abbiamo dato molto, o molto poco, alla civiltà italiana.
Nel momento storico attuale i siciliani sono in crisi. Il bandito Giuliano è oramai soltanto un riferimento antologico della storia mafiosa, il senatore Mario Scelba (l'uomo il quale esemplificò come la democrazia si possa difendere con metodi tirannici) forse il vero fondatore del regime democristiano, affonda nelle brume della lontananza con tutti i suoi ricordi, compresa l'ultima notte di Salvatore Giuliano. Il principe Tomasi di Lampedusa viene soltanto citato per il film di Luchino Visconti e per il famoso dialogo fra il Gattopardo e il piemontese Chevalley sul mortale privilegio d'essere siciliani. Salvatore Quasimodo nessuno lo conobbe veramente mai in Sicilia, è sui libri di testo, requiescat! L'arbitro Lo Bello amministra in Parlamento il suo onorevole tramonto, non diventerà mai sottosegretario o ministro, è ingrassato, non rassomiglia più a Clark Gable, è certamente uno dei democristiani più preparati e garbati e forse per questo, un giorno o l'altro, il suo partito gli farà improvvisamente le scarpe. Sic transit.
Restano Pippo Baudo e Leonardo Sciascia, l'uno delegato ad ammansire ogni domenica pomeriggio disperazioni, malumori e ribellioni degli italiani; l'altro che continua gelidamente a spiegare la necessità di una grande rivoluzione e la contemporanea impossibilità di realizzarla.
Probabilmente non è esistito mai, almeno nella cultura, un siciliano che fosse così profondamente siciliano come Sciascia, nella antichissima saggezza, tremila anni di dolori, paure, violenze patite o inferte, solitudine, e quindi il genio che nasce appunto dalla storia e dalla solitudine, e questo genio unito alla saggezza, alla pazienza, a un costante onore della morte. E tuttavia nella cultura siciliana non esiste un siciliano capace di guardare ai fatti umani con altrettanto distacco intellettuale, con un cuore così gelido, il rifiuto definitivo delle passioni umane (che non siano avidità e potenza) quali cause degli eventi. Sciascia siciliano come nessun altro, e tuttavia completamente diverso da ogni altro siciliano. Alien Sciascia.

Dieci pensieri, dieci riflessioni per capire chi è veramente, e perché, questo alien Sciascia.

1) In compagnia dei morti: Sciascia è il più grande scrittore italiano, certamente l'unico a livello europeo. Una ideale graduatoria dei grandi narratori italiani potrebbe essere la seguente: Verga, Pirandello, Manzoni, Sciascia, Moravia, Tomasi di Lampedusa, Italo Svevo, Brancati, Vittorini, Marotta. Certo una graduatoria siffatta può essere infinitamente discussa: mancano quasi del tutto gli autori moderni, come se la cultura del nostro tempo fosse scaduta definitivamente a livelli miserabili; e i siciliani sono davvero tanti e sicuramente troppi, come se l'ispirazione poetica, e dunque politica e sociale, da cento anni divampasse solamente al Sud. Ma in verità chi sono i narratori italiani moderni che, al di fuori della retorica politica, o della esasperazione commerciale, cioè senza l'avallo dei grandi partiti o l'amicizia dei grandi editori, ma semplicemente per privilegio del loro talento, possano essere considerati oggi, in Italia, grandi narratori? Non a caso, in quei primi dieci, fatta esclusione di Moravia e Sciascia, tutti gli altri sono morti, cioè protagonisti di una cultura che non ci appartiene più.

2) Amante di Medea: Sciascia sarebbe stato il più grande giornalista vivente poiché, come nessun altro, possiede quella che dovrebbe essere la qualità essenziale del giornalista: la capacità di sintesi. Egli osserva l'evento da ogni parte, Sciascia sempre fermo con i piccoli occhi aguzzi puntati, e l'evento che si muove, corre, torna, si capovolge, rigira, appiattisce, s'aguzza, modifica, rinsecchisce, esplode, e Sciascia sempre fermo, lo vede da ogni parte, alla fine è in condizione di descriverlo perfettamente. Essendo rimasto immobile al suo posto egli ha potuto misurarne la velocità di evoluzione e, a mano a mano che esso si spostava, osservarlo nelle sue diverse esposizioni, e quindi perfettamente conoscerlo a differenza di coloro che, per passione o umano interesse, viaggiano insieme all'avvenimento o dentro l'evento stesso, e quindi conoscono soltanto e sempre un aspetto. Il loro. Laddove gli altri bruciano, Sciascia rimane gelido: né dolore, pietà, commozione possono spostare di un'unghia il suo pensiero sull'evento umano. Nell'eterna lotta fra la ragione e il sentimento egli è stato immobile sempre dalla parte della prima. La sua grandezza è anche il suo limite. Sciascia è il gelido, immobile cervello elettronico: dall'altra parte una ingannevole gozzoviglia di lacrime, sudore, sangue, Amleto, Ecuba, Otello, Giulietta, Odisseus, Karamazoff, Bovary... Un'idea bizzarra, fantastica: immaginare Sciascia amante di Medea!

3) Prolegomeni sulla mafia: Sciascia è un genio e viene definito mafiologo.
Sciascia ha scritto libri di filosofia politica che hanno anticipato di anni le tragedie della politica italiana e i melensi speaker televisivi continuano a dire: «E' qui con noi il mafiologo Sciascia!». E Sciascia allarga la sua strana faccia da batrace in un sorriso di ironica condiscendenza. In effetti Sciascia sa tutto della mafia, ma come Kant sapeva tutto dei prolegomeni. Lui non ha fatto mai racconto della mafia, né interpretazione, ma semplicemente la filosofia della mafia. Le ha dato una patente di dignità intellettuale, ha costretto statisti, politologi, governanti a trattare di mafia come uno degli argomenti fondamentali del nostro tempo.
Sciascia, se non fosse stato, per avventura umana e scelta civile, il più spietato e lucido avversario della mafia, sarebbe stato il piú geniale dei mafiosi. La ipotetica repubblica mafiosa di domani avrebbe, in tutte le sue piazze, statue di Sciascia come la becera repubblica di oggi ostenta indegnamente quelle di Garibaldi. La vita può fare di questi giochi per i quali naturalmente non esiste la prova del contrario. Dipende dal luogo dove si nasce, dal padre che ti genera, dall'ambiente che ti alleva, dai dolori e dalle speranze che accumuli. Qualsiasi essere vivente instrada le sue capacità intellettuali nella direzione in cui il suo personale contesto lo conduce. L'uomo Cutolo, se fosse nato da una famiglia di contadini rivoluzionari del Sudamerica, sarebbe stato probabilmente Simon Bolivar. Naturalmente non è una regola assoluta. Naturalmente esiste per ogni vivente uno spazio di libertà dentro il quale l'anima può riuscire a sopraffare tutte le condizioni, gli adescamenti, le necessità dell'ambiente. Ma accade forse solo ai santi.

4) A ciascuno il suo ruolo: Sciascia è convinto che la mafia sia un sottile gioco di cervello. La condizione umana non è influente: la povertà, l'ignoranza, il dolore non entrano nel gioco. Il mafioso è tale per composizione storica di elementi: psicologia, tradizioni, contrapposizioni d'interesse. In tutti i libri di Sciascia la violenza degli uomini è mossa soltanto dal fatto di essere già all'inizio personaggi definiti. In nessuno di tali personaggi, dietro la violenza, ci sono mai la sofferenza sociale dell'uomo, il dolore dell'individuo, la sua disperazione di potere altrimenti modificare il destino, e cioè gli antichi ed immutati dolori del Sud: miseria, solitudine, ignoranza.
I personaggi entrano in scena e sono già disegnati, con tutti i loro abiti indosso, ognuno deve recitare la sua parte già scritta, senza mai spiegare il perché, essi sono il buono, il cattivo, l'uccisore, il testimone, la vittima, senza mai dare spiegazione, com'è accaduto: per quale dolore, ribellione o inganno quel tale sia nel ruolo di assassino e l'altro in quello della vittima. Può accadere che ci sia thrilling, poiché Sciascia ha anche questa geniale perfidia letteraria di utilizzare il mistero, per cui tu non capisci ancora chi sia il giusto o l'ingiusto, l'assassino o la vittima, ma al momento in cui il thrilling si risolve, tu ti rendi conto che quel giusto era giusto fin dall'inizio, e così anche l'ingiusto, l'assassino e la vittima, sei tu mediocre a non averlo capito prima.
E' come se Sciascia entrasse nel teatro in cui si recita l'essere siciliani a spettacolo già cominciato e volesse interpretare i protagonisti solo per quello che dicono. Il resto, il passato, il già detto e già avvenuto non influisce. E' ombra. L'intuizione diventa più difficile. Il gioco intellettuale più affascinante.

5) Universo senza donne: Sciascia non narra mai di grandi passioni sentimentali. Nel suo universo la donna, come costante essenziale di tutte le altre vicende umane, non esiste.
Protagonisti sono i capipopolo e gli assassini, i cardinali, i ruffiani, i colonnelli dei carabinieri, i ministri, i confidenti di polizia, i teologi, i viceré, gli accattoni: la donna mai!
In quello che probabilmente resta il suo libro esemplare, per perfezione narrativa e nitidezza di significati morali, "Il giorno della civetta", unico personaggio femminile presente in tutto l'arco del racconto è la vedova Nicolosi, che praticamente costituisce il perno dialettico dell'intera vicenda: il marito è stato assassinato per un delitto di mafia, e tuttavia qualcuno vuole dimostrare com'egli sia stato semplicemente trucidato da un misterioso amante della donna. C'è, per un attimo, un presentimento da tragedia greca. Ma appena la vedova Nicolosi fa un passo avanti (che diamine, l'uomo che hanno ucciso era il suo uomo, tutto dovrebbe gridare vendetta, violenza, passione in lei) Sciascia la ricaccia subito gelidamente indietro. E' gelido anche nel descriverla, quasi con l'involontaria ironia di un verbale di carabinieri: «Era bellina la vedova; castana di capelli e nerissimi gli occhi, il volto delicato e sereno ma nelle labbra il vagare di un sorriso malizioso. Non era timida. Parlava un dialetto comprensibile. Qualche volta riusciva a trovare la parola italiana, o con una frase in dialetto spiegava il termine dialettale!».
Tutta la storia d'amore di questa donna, giovane, bella, alla quale hanno letteralmente strappato il marito per farne pupo da zucchero (un dolce tipico siciliano che si regala ai bambini nel giorno dei Morti), tutta la passione, i fremiti, il desiderio tradito, il dolore, la violenza sensuale, i sogni spezzati, l'essere donna di questa vedova, tutto il suo grido di femminilità violentata, si racchiude in questo placido periodo, allorché ella racconta il suo rapporto con l'ucciso:
«Egli ha conosciuto me ad un matrimonio: un mio parente sposava una del suo paese, io sono andata al matrimonio con mio fratello. Lui mi ha vista e quando quel mio parente è tornato dal viaggio di nozze, lui gli ha dato incarico di venire da mio padre per chiedermi in moglie. Dice "è un buon giovane, ha un mestiere d'oro", e io dico che non so che faccia ha, che prima voglio conoscerlo. E' venuto una domenica, ha parlato poco, per tutto il tempo mi ha guardata come fosse in incantamento. Come gli avessi fatto una fattura, diceva quel mio parente. Per scherzare, si capisce. Cosi mi sono persuasa a sposarlo!». Nelle donne di Sciascia non ci sono proiezioni d'ombre e trasalimenti di Ecuba, Fedra, Medea, nessuna femminilità tragica e furente, nessuna donna come madre della vita. Il rapporto sentimentale fra uomo e donna è sempre grigio, usuale, senza misteri. Sciascia probabilmente non ritiene la donna pari all'uomo, né come individuo, né dentro la storia. Una aggregazione, una appendice, un elemento di spettacolo. Le donne: mogli, amanti, duchesse e puttane, vengono sulla scena a recitare la loro parte e basta. Sono ininfluenti, emettono suoni, non comunicano sentimenti. Comparse che servono semmai alla battuta del maschio, alla sua riflessione; al più sono comprimarie utili al dialogo, in cui tuttavia gli uomini protagonisti formulano infine il pensiero essenziale, l'unico degno di rispetto.

6) Individui nella storia: Sciascia non ha un'idea politica precisa. Quasi certamente è convinto che la politica sia un mezzo che la società offre all'uomo per realizzarsi come individuo, non certo uno strumento della società per risolvere i suoi problemi. A giudicare dai pensieri e dagli atteggiamenti dei suoi personaggi (quasi sempre i pensieri dei personaggi coincidono inconsciamente con quelli dell'autore) Sciascia è una specie di liberale di sinistra, politicamente fermo alla Sicilia del dopo Crispi, nella quale i grandi problemi della società potevano essere risolti dal superiore talento di alcuni uomini, mai dalla trascinante violenza o dalla ribellione e disperazione delle masse. Queste grandi forze possono essere utilizzate storicamente da alcuni individui, mai essere protagoniste. Anche la politica dunque non è uno scontro dei bisogni popolari dell'umanità, che non ha perciò cicli politici in evoluzione, l'uno diverso dall'altro e determinati da nuove, profonde necessità storiche, da un eterno gioco di poche intelligenze opposte che, di volta in volta, interpretano situazioni storiche e se ne avvalgono. Sciascia scruta continuamente nel passato, libri, leggende, vicende umane, nella certezza di trovare un'ineluttabile identificazione tra passato e presente, e così dimostrare come quello che accadde un tempo, continui ad accadere anche oggi e che i pugnalatori di Palermo furono come i brigatisti di oggi e viceversa. Una somiglianza siffatta non può certo essere rinvenuta nella comparazione dei grandi eventi collettivi, ma nel raffronto fra storie di individui. Il gioco è più sottile, esige un'infinita pazienza poiché sono personaggi minimi dai quali si vogliono trarre grandi verità, bisogna riconoscerli, provocarli, ascoltarli, interrogarli infinite volte. C'è un motivo di ambiguità e di fascino in tutto questo. Chi cerca nella storia interpreta e racconta fatti e personaggi che gli altri conoscono già e di cui si cerca semmai soltanto di offrire una diversa valutazione. Sciascia cerca esseri e vicende che solo lui sa e conosce. Non può essere smentito. Ecco perché Sciascia appare grande, poiché è quasi sempre incontrovertibile.

7) Pirandello mente: Sciascia non conosce quasi mai i fatti, le cose, gli uomini, direttamente, ma li apprende per infinite vie, magari semplicemente attraverso la lettura dei giornali e l'ascolto della televisione. Tuttavia ha una miracolosa facoltà, una specie di magico ordine mentale, per cui egli allinea fatti, cose, eventi, battute, personaggi sul suo tavolo e comincia con infinita pazienza a identificarli e collegarli. Senza mai avere visto alcuno, o parlato con chicchessia, né chiesto opinioni, ricostruisce la sua verità. E alla fine la ritiene l'unica possibile. Anche gli altri alla fine se ne convincono. Tutto questo è molto singolare. E' come se egli osservasse gli esseri umani in vitro, anni dopo anni, con l'occhio incollato a un suo microscopio, valutandone voci, gesti, sembianze, saggezza, follia. Alla fine li mette in bell'ordine sulla pagina del libro ed essi - microbi o batteri umani - si muovono, parlano, fanno, uccidono e muoiono esattamente come l'autore Sciascia ha capito o deciso che essi debbano.
Di tutti gli scrittori moderni Sciascia è il più antipirandelliano poiché sottrae ai personaggi qualsiasi indipendenza. Non è che Pirandello li lasciasse in totale libertà: li teneva sempre per sottilissimi, invisibili fili in modo che non andassero mai oltre la scena; usava almeno questo sublime, pietoso inganno di concedere ai suoi personaggi statuto di libertà, come un monarca illuminato, tuttavia conducendoli amabilmente a fare solo quello che il monarca voleva. In sostanza gli concedeva soltanto la possibilità di essere (dentro) diversi da quello che (fuori) apparivano o erano costretti ad apparire. Un grande gioco crudele e ridente.
Sciascia invece è tiranno, non concede ai suoi personaggi alcuna facoltà. Essi non sono mai alla ricerca di autore, né mai sono diversi da come appaiono, nemmeno diversi da come vorrebbero essere. Semplicemente sono come Sciascia ha deciso che siano. C'è tutto Sciascia in questo: egli riconosce la libertà soltanto al potere, e riconosce potere soltanto al talento. Soprattutto al suo talento. Per anni Sciascia studiò il grande mistero umano e politico dello scienziato catanese Majorana, improvvisamente scomparso dalla vita mentre viaggiava per nave da Napoli a Palermo. Nessuno, nemmeno i fratelli o gli amici più intimi, riuscirono mai veramente a capire cosa fosse veramente accaduto. Sciascia infine ritenne di sì. Con un piccolo libro cancellò di colpo quarant'anni di misteri, dubbi, angosce, ipotesi d'amore e dolore, paura e vendetta. Probabilmente, anzi certamente, non è vero che Majorana perì come Sciascia ha detto ch'egli perì. Però, quando la gente pensa o parla di Majorana, crede che sia scomparso dalla vita come Sciascia ha spiegato ch'egli scomparve.

8) Il fascino crudele della ragione: Sciascia non è simpatico. Talvolta è affascinante, ma chiunque lo sente diverso, in una sua astrazione intellettuale, dove gli altri uomini non possono penetrare, ma restare in attesa di capire. Sciascia non è mai d'accordo con alcuno. E' vero, cita verità enunciate da altri, battute, frasi, ma costoro sono morti. Uno dei tratti ammirabili di Sciascia è infatti la straordinaria forza mentale, l'infallibile rigore logico, con il quale anzitutto egli riesce sempre, quasi sempre, a dominare se stesso, riconducendo ogni atto, parola, pensiero, soluzione a quel perfetto personaggio morale che egli ha studiato e costruito di se stesso. Senza mai, quasi mai, una fragilità, un cedimento, per quelle forze antiche e misteriose della sua natura siciliana, per quelle violenze viste, pagate e fatalmente adottate negli anni dell'infanzia e adolescenza. La ragione, cioè la forza mentale di Sciascia è tale, ed anche tale la sua sicurezza nella sua stessa intelligenza, che egli conduce il gioco fino al limite intellettuale, basta una incrinatura e la ragione diventa delirio. Questo è genio. Talvolta (ma è un lampo, per un attimo, davvero appena un lampo) la ragione chiude gli occhi sfinita, e vien fuori don Mariano Arena de "Il giorno della civetta", abietto persecutore della povera gente e mandante di dieci assassinii, il quale spiega all'ebete capitano Bellodi la classificazione degli esseri viventi: uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quacquaracquà. E il capitano Bellodi pensa: don Mariano Arena è un uomo!
Oppure Sciascia spiega per quale patetica vanità umana il generale Dalla Chiesa andò a morire, conducendo alla morte anche la ragazza che aveva sposato, e il discorso, senza una sola sbavatura intellettuale, ha una infallibile coerenza da teorema: ma il giovane figlio del generale Dalla Chiesa insorge, si ribella, grida, che la ragione di Sciascia è una logica da mafioso; Dalla Chiesa junior è un giovane, confuso e straziato, il quale sa di certo che il padre andò ingenuamente a cercarsela la morte, ma sa anche che qualcuno dall'imperscrutabile vertice politico lo mandò a morire in Sicilia, e non sa chi, non ha prove, non ne avrà mai. E' un giovane uomo infelice e furente al quale bisognerebbe soltanto poggiare una mano ferma sulla spalla per dirgli: ragiona con me ragazzo! Invece Sciascia (ecco quel lampo antico, quell'attimo) gli grida semplicemente che è un infame imbecille. Lo cancella, cancella tutto di lui: la sua piccola ragione, il suo dolore di figlio, la ribellione, la disperazione per una giustizia che nessuno gli renderà mai! Sciascia non ammette mai di avere torto. E al servizio di questo principio inalterabile pone la sua geniale matematica intellettuale. Per questo, non fosse stato il più implacabile nemico della mafia, sarebbe stato forse la più perfetta mente mafiosa del secolo.

9) Gli antichi parenti: Sciascia, pur così schivo, timido, delicato, amabile, ama la popolarità. I suoi amici sono sempre di grande censo. Quasi certamente ama molto anche il denaro, scrive su tutto e di tutto, si fa giustamente pagare in proporzione al suo eccezionale merito, e secondo la legge della domanda e dell'offerta.
Sciascia ha questo straordinario ingegno, assolutamente raro e in Italia quasi unico, di cogliere immediatamente il senso storico di un personaggio e contemporaneamente la sua importanza consumistica e di sapere subito nobilitarlo trovando un riferimento illustre nel passato, un altro evento, o fatto, personaggio, idea, pagina scritta, da cui trarre motivo per interpretare il presente. Sciascia cerca parentele antiche ovunque sia possibile trovare una affinità sentimentale, da Voltaire del Candido a Rizzotto de "I mafiosi della Vicaria". Disprezza il presente troppo rapido, superficiale, feroce, aggressivo, continuamente scontento, troppo vorace di novità, continuamente volto al futuro, senza attenzione per le cose che ancora stiamo vivendo, e già agognando e lottando per le cose improbabili che dovremo vivere domani; il presente torvo, incerto, maligno, avvelenato, stupido, rozzo, computerizzato in cui lo spazio per l'intelligenza umana diventa sempre più ristretto. Sciascia probabilmente odia anche i protagonisti del tempo presente: ruvidi, incolti, violenti, presupponenti, avidi, incapaci di una vera riflessione: presenti che nuotano sempre nella cronaca e non hanno un attimo per capire in quale punto sono del fiume. Sciascia preferisce gli antichi, li sente consanguinei, simili, gli antichi che stavano dentro immense stanze oscure, dietro tavoli ingombri di carte, in mezzo a migliaia di libri di ogni epoca, e con tutto il tempo per meditare sulle cose degli uomini. Così, istintivamente, dovendo parlare del nostro tempo, egli va a cercare gli antichi parenti: la sua conclusione, certamente sbagliata, e tuttavia profondamente siciliana, è che in realtà non accade mai veramente niente di nuovo, ma ogni cosa continua ad accadere come cento o cinquecento anni fa. Nel Sud naturalmente. Tutto accade affinché misteriosamente ogni cosa continui a restare la medesima. Il siciliano Sciascia, che è l'opposto o addirittura la negazione filosofica del siciliano Pirandello, è l'identico del siciliano Tomasi di Lampedusa: la storia del Sud sempre uguale, passione, odio, amore, ambizione, tradimento, infinitamente si ripete. L'unica ipotesi di modificazione è un grande lampo atomico finale, dopo il quale finalmente tutto sarà diverso. O non sarà più!

10) I primi dieci viventi: Sciascia cos'è per gli europei, per gli italiani, per i siciliani? Immaginiamo di compilare una graduatoria degli scrittori italiani viventi, del nostro tempo, basandoci su tre elementi di valutazione precisi: anzitutto il reale talento, cioè l'autentica originalità e profondità di pensiero; poi l'importanza culturale, cioè la valutazione espressa dalla critica ufficiale e quindi la influenza sulla cultura contemporanea; infine la capacità di vendita sul mercato italiano e internazionale. Facciamo conto, sulla base di questi tre elementi, di assegnare ad ognuno dei personaggi in classifica, un punteggio fino a cento, in maniera da stabilire non solo la graduatoria, ma anche il reale distacco fra l'uno e l'altro. Ebbene avremo una classifica bizzarra, discutibile certo, ma che in definitiva rispecchia quelli che sono i valori reali.
Cominciamo dal basso: a quota venti (che essendo la più depressa è naturalmente la più gremita) troviamo quattro scrittori, Carlo Cassola, Carlo Sgorlon, Giovanni Arpino e Vincenzo Consolo, i quali sia pure per motivi ed ispirazioni diversi, esprimono un certo livello medio della narrativa italiana, quella che ronza di continuo attorno ai premi letterari tradizionali. Non ci sono lampi. Mai un tentativo di digressione in altri campi letterari più sofisticati come la saggistica, la filosofia, il teatro.
A quota trenta troviamo Piero Chiara ed Elsa Morante, anche loro profondamente dissimili, e che certo non possono vantare maggiore qualificazione culturale di quei quattro menzionati ma che sicuramente meritano una valutazione più ampia, l'uno per la incredibile fertilità (bisogna pur tenerne conto) e l'altra per il coraggio culturale, diciamo anche una certa impudenza, a passare oltre i confini della pura narrativa.
A quota quaranta, solitario, Gesualdo Bufalino che invece ha scritto un libro solo, però una specie di bagliore, una folgorazione. Bisogna ancora cercare di capire quanto sia capace di scriverne un altro di eguale valore, oppure se tutta la sua ispirazione umana si sia bruciata in quella diceria covata, maturata, putrefatta, purificata per quarant'anni dentro.
A quota cinquanta, anch'egli solitario, senza dubbio Enzo Biagi, che è romanziere assolutamente mediocre, incapace di far nascere e vivere storie autonome dentro di sé, e tuttavia ha questa prodigiosa capacità di interpretare il presente, con tutte le infinite astuzie del mestiere. La sua capacità di vendere e contemporaneamente emozionare, e quindi essere anche divo, gli consente di occupare certamente un posto di graduatoria più alto dei suoi reali meriti culturali.
A quota sessanta, ed anche egli naturalmente solitario, poiché nel contesto della letteratura italiana senza eguali, Alberto Moravia, settant'anni, tutta la vita spesa a raccontare se stesso, la sua infinita noia, il suo costante disprezzo per gli altri, il suo eros, i suoi incubi. Senza dubbio un maestro, forse ormai spento, e forse invece, proprio in questo ultimo tempo della sua vita, nelle condizioni di dolore e serenità per quel capolavoro che non è riuscito mai veramente a scrivere.
Infine a quota cento, unico, lontano da tutti gli altri, perché il più geniale, il più riverito, il più venduto, solitario e irraggiungibile, con quell'enigmatico sorriso da Giocondo, forse mistificatore, forse profeta, Leonardo Sciascia, il quale da solo rappresenta in Europa la letteratura siciliana e italiana nella narrativa, nella saggistica, nella filosofia della letteratura. Forse il più siciliano di tutti i grandi narratori di tutti i tempi, e tuttavia diverso da qualsiasi altro siciliano. ALIEN!
E questo va detto da un siciliano che non ama Sciascia, che si ritiene identico a tutti gli altri siciliani del suo tempo, e in questo trova la bellezza della sua vita.




2010-06-11

Rubrica settimanale:_Parole rimosse_

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Funerali di Stato: Avanti c'è posto
da "I Siciliani", settembre 1983

C'è un personaggio a Palermo, al cui apparire, negli ultimi tempi, decine di migliaia di persone in attesa da ore, prorompono in un dilagante applauso. E, fra gli applausi, anche le grida di sdegno, le lacrime, le invettive, occhi furenti e pugni protesi. Nessun grande attore di teatro, in alcuna grande arena italiana, può vantarsi d'essere accolto con un applauso così appassionato e commosso. Questo personaggio, che crediamo si chiami Calogero, oppure Benedetto, è un signore di mezza età, gentile, triste, decorosamente vestito, di amabili modi e voce sommessa, il quale esercita quella professione che Amleto, nel suo famoso monologo col povero Yorik, definiva "interratore di sogni" e che gli organici comunali più aridamente qualificano: operaio di seconda categoria, addetto alle pompe funebri. Insomma becchino! Orbene il signor Calogero (o Benedetto) esercita questa onorata e indispensabile professione a Palermo, ed è il becchino (absit iniuria) al quale vien data mansione, alla fine delle esequie, di provvedere al trasporto del feretro fino al carro funebre. E' appunto il signor Calogero che, sull'ultimo gesto del prete con l'aspersorio, "Pacem aeternam dona eis Domine...", spegne rapidamente le candele, fa un lievissimo gesto ai suoi aiutanti affinché sollevino la bara e, così sempre muovendosi con occhi tristi (facies professionale) e piccoli passi gentili e gesti amabili, guida il feretro fino al carro, precedendolo di un passo al fine che questo ultimo cammino sia sicuramente rapido e tuttavia garbato. E' lui, il signor Calogero, che dunque appare sempre per primo sulla soglia della chiesa, una frazione di secondo prima dell'apparire della bara. Il signor Calogero ha fatto il suo lavoro con garbo e pietosa precisione, per il giudice Terranova, il vicequestore Boris Giuliano, il giudice Costa, il presidente Mattarella, il capitano Basile, il generale Dalla Chiesa, il capitano D'Aleo e il giudice Chinnici, sempre con perfetta educazione, gentilmente tenendo a bada ministri, vedove, orfani, presidenti della Repubblica, generalissimi, prefetti di ferro, sottosegretari e deputati: ed ogni volta apparendo sulla soglia della grande chiesa palermitana contemporaneamente al feretro. E' stato lui dunque a godersi quell'immenso applauso, ultimo saluto di dolore, amore, collera, paura, disperazione, di decine di migliaia di cittadini piangenti e urlanti. E' già miracolo che non si sia lasciato finora mai sconvolgere dall'emozione (un lampo di pazzia dinnanzi al trionfo, perché no?) e non sia scoppiato in una terribile risata in faccia a tutta quella gente, o addirittura (nella pazzia c'è sempre un lampo di verità), lassù dall'alto della scalinata come da una ribalta, non abbia platealmente ringraziato con un inchino per quell'applauso e, volgendosi umilmente, come sogliono fare le comparse per indicare i veri protagonisti dello spettacolo, se non addirittura l'autore, non abbia indicato alla moltitudine la piccola folla politica al seguito del feretro. Come a dire: amici, voi applaudite me per questo ennesimo capolavoro? Ma io sono solo il becchino, il buttafuori, il siparista! In mezzo a quella piccola folla di potenti della terra, i veri padroni della nazione, c'è probabilmente anche quello che ha scritto il copione. Colui che ha fatto uccidere, oppure sa chi ha ucciso e fatto uccidere, e dunque gli ha dato il suo alto consenso. E' trascorso un anno dall'assassinio del generale Dalla Chiesa. Doveva essere l'anno del riscatto e della giustizia per i siciliani. Tutto è accaduto in peggio, la mafia è trionfante. Pio La Torre, segretario regionale del partito comunista, era stato ucciso perché aveva imposto al governo la legge antimafia sulle indagini bancarie che avrebbero dovuto consentire di identificare i grandi capitali mafiosi e i loro artefici. Dalla Chiesa venne assassinato perché preannunciò di avere identificato le connessioni fra gli intoccabili mafiosi della finanza e della politica. E dopo di lui, in questa specie di anno santo mafioso, un crescendo. Il giudice Ciaccio Montalto massacrato perché era sul punto di spiccare i mandati di cattura contro alcuni invulnerabili padroni di banche (banche forse nemmeno siciliane, aguzzate il talento!) nelle quali vengono riciclati i miliardi della droga. Il capitano D'Aleo trucidato insieme ai carabinieri di scorta poiché prossimo alla identificazione degli invisibili manager mafiosi che, dai loro uffici di presidenza, dirigono l'esercito insanguinato della mafia alla conquista della società. Infine il giudice istruttore Rocco Chinnici, assassinato in quel modo barbaro, coinvolgendo nella strage decine di vittime innocenti, persino bambini: una ferocia senza precedenti nella pur ferocissima storia mafiosa, poiché anche il giudice Rocco Chinnici doveva assolutamente morire, e doveva morire perché anch'egli stava per strappare il velo agli inviolabili santuari, identificare (ecco il punto) non soltanto coloro i quali eseguono gli assassinii, e coloro che ne sono i mandanti, i grandi strateghi degli affari mafiosi, ma soprattutto coloro i quali, da imperscrutabili cattedre politiche, finanziarie, forse anche governative, assicurano invulnerabilità. Ecco: l'assassinio di Chinnici ha un significato che, per esemplare crudeltà, scavalca tutti gli altri delitti precedenti. Significa infatti: tu magistrato coraggioso e onesto, fai pure il tuo lavoro, arresta, imprigiona, condanna coloro che uccidono, avvelenano il mondo con la droga, guadagnano migliaia di miliardi e, se ne sei capace, anche coloro che li comandano, i mandanti, gli strateghi, ma non andare al di là di un passo, non cercare di capire e conoscere coloro i quali li proteggono ed assicurano loro inviolabile potenza. Non un passo di più! C'è un funerale di Stato pronto per te! Un anno dalla morte di Dalla Chiesa, e in questo anno che doveva essere quello della grande vendetta e giustizia, persino la regia del dopo assassinio è diventata perfetta. Uno spettacolo! Prima parte della recita i funerali, tutti i padroni del feudo Sicilia schierati attorno al feretro; il povero Pertini trascinato a Palermo, sempre più vecchio, sempre più stravolto, a piangere sulla spalla di vedove e orfani; la rovente omelia del cardinale Pappalardo che invoca il rugginoso gladio di Roma in soccorso della disperata Sagunto; la folla palermitana che piange e applaude quelle misere bare con le quali uomini coraggiosi scompaiono dalla vita; capi di governo, sindaci, ministri, sottosegretari, deputati, tutti in tetro ed elegante completo scuro, la faccia pallida di emozione e paura, tre squilli di attenti, la grande ovazione di addio, il summit in questura con i ministri degli Interni e Giustizia che riconfermano fiducia, precisano che comunque sarà dura e se ne vanno, l'opinione pubblica che trattiene il respiro, pensa, disperatamente pensa: forse stavolta qualcosa accadrà! Fine parte prima.

Parte seconda. Emerge notizia, non si sa da dove, mai ufficiale e tuttavia mai smentita, che anche stavolta la vittima stava raccogliendo le ultime prove per incriminare finalmente i grandi vecchi della mafia, gli stessi che Pio la Torre voleva disarmare con la sua legge, i medesimi che Dalla Chiesa sperava di smascherare, che il capitano D'Aleo e il giudice Ciaccio Montalto erano ad un passo dal riconoscere, che Chinnici stava per catturare. In questa notizia, che pur sembra un grido di speranza della giustizia c'è una maligna ironia! Come a dire: attenti, ecco quello che succede a colui (generale, magistrato o prefetto che sia) il quale osa oltrepassare quella soglia. Il messaggio è lanciato alla perfezione, chi ha da capire capisce. Fine parte seconda!

Parte terza, il colpo di genio! Notizia per la quale sono stati identificati i nomi degli assassini, stavolta i nomi si fanno, si possono fare, tutti protagonisti della mafia vincente e perdente, personaggi già braccati per una trentina di omicidi a testa, perseguiti dalla ipotesi di una decina di ergastoli ciascuno. Uno più, uno meno! Greco, Inzerillo, Bontade, Spatola, famiglie immense di figli, fratelli, cugini, nipoti, la metà sono morti, i sopravvissuti fanno feste di cresima a New York, alla gente queste storie piacciono, i grandi rotocalchi fanno servizi speciali. E perché, anche quelli di Dallas non sono canaglie, e tuttavia venti milioni di telespettatori non li guardano a bocca aperta? Intanto passano settimane e mesi, c'è la crisi della lira, le ferie selvagge, il nuovo campionato di calcio, Zico, Luvanor, Platini, il ragioniere Cova fa impazzire di orgoglio razziale gli italiani, il vecchio Mennea li rende quasi contemporaneamente infelici, cominciano le grandi battaglie sindacali d'autunno dove ogni povero cristo, l'avvocato Agnelli e il manovale di Solarino, ha da difendere il suo peculio, l'estate finisce, piogge, alluvioni, si riaprono i teatri, ci sono stati altri cinquanta omicidi a Palermo, a Napoli invece settanta, Biagi, Bocca e Baget Bozzo hanno scritto altri venti articoli sulla erudita differenza fra mafia e camorra... chi era Rocco Chinnici? Gli arabi supertestimoni e informatori dei servizi segreti si sono rivelati venditori ambulanti di tappeti e collanine, altri venti o trenta giudici coraggiosi hanno garbatamente pensato che vivere certamente è sempre meglio che fare insicuramente giustizia, oltretutto si fa più carriera, solo qualcuno disperatamente resiste nella sua coscienza di uomo. Il signor Calogero è là, con il suo malinconico e gentile sorriso: ma voi perché applaudite me? io sono solo il becchino!



2010-06-05

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Diario Pazzo
da "I Siciliani", novembre 1983

Dicono che sia già cominciata la corsa per il Quirinale e che uno dei cavalli in corsa sia Amintore Fanfani. Io non dimenticherò mai il primo piano di Amintore Fanfani, ancora capo del governo che sbarca a Palermo, l'indomani dell'assassinio del giudice Chinnici e, alla domanda del telecronista il quale gli chiede cosa abbia da dire agli italiani dinnanzi a un delitto che rappresenta uno sfregio sanguinoso per l'intera nazione, si raccoglie per qualche istante in assorta meditazione. Il telecronista trattiene il respiro, Fanfani lo guarda con un tragico sorriso di furbizia e leva il dito in faccia al malcapitato. Dice testualmente: «Attenzione, attenzione, attenzione!». Basta.
Il telecronista rimminchionito da una dichiarazione così profonda, balbetta incautamente: «A che cosa, signor presidente?», e Fanfani, con due occhietti nei quali si legge perfettamente «Ma che cazzo vuoi da me?», vibra ancora il dito incontro al naso dell'infelice: «A tutto, amico mio, a tutto!».
Se ne va, fa tre passi in mezzo a una piccola folla di generali, capipopolo, superprefetti, ministri e, volgendosi, leva ancora il dito per ribadire: «A tutto!».

Amintore Fanfani era segretario nazionale della democrazia cristiana venti anni or sono, quando il futuro ministro Gioia era segretario provinciale della Dc di Palermo e Pasquale Almerico era sindaco e segretario comunale della Dc di Camporeale e rifiutò la tessera del partito al capomafia Vanni Sacco e a trecento suoi sgherri per evitare che la democrazia cristiana e tutto il paese cadessero nelle mani della più feroce cosca della zona.
E il segretario provinciale Gioia, il quale voleva invece quei trecento nuovi iscritti, cacciò via il sindaco Pasquale Almerico dal partito, e poiché il sindaco Pasquale Almerico, cacciato dal partito, continuava accanitamente a lottare rifiutandosi di dimettersi dalla carica di sindaco, gli venne espressamente spiegato dai mafiosi nuovi iscritti alla Dc che se non si fosse dimesso entro giorni, avrebbero provveduto loro a dimetterlo dalla vita.
E allora Pasquale Almerico scrisse al futuro ministro Gioia, dicendo che ormai la democrazia cristiana di Camporeale era nelle mani della mafia, e che egli però non si sarebbe mai dimesso dalla carica di sindaco, e scrisse anche per conoscenza al segretario nazionale della dc, Amintore Fanfani, spiegandogli come egli stesse continuando a lottare oramai da solo per l'onestà del partito, e come qualcuno stesse per ucciderlo.
Probabilmente la sua lettera era solo il testamento morale di buon siciliano, o più umanamente solo una disperata implorazione di aiuto di un uomo che non voleva morire, ma nessuno fece niente per Pasquale Almerico, il quale infatti, una sera, mentre usciva dal palazzo del municipio, si trovò solo al centro della piazza, tutte le luci del paese si spensero e da due angoli bui Pasquale Almerico venne crivellato di piombo e ridotto a un cencio insanguinato.
Su tutta questa storia, minutamente, limpidamente scritta da Michele Pantaleone in uno dei suoi straordinari pamphlet, ci fu un processo per diffamazione dello scrittore siciliano, intentato dall'ormai ministro Gioia, e i giudici della corte di appello di Torino dinnanzi ai quali il processo era stato demandato per legittima suspicione, dichiararono che era stata raggiunta la prova che quanto dichiarato da Pantaleone corrispondeva a perfetta e documentata verità.
E dopo vent'anni Amintore Fanfani, capo del governo, viene in Sicilia a celebrare i funerali di Stato di un povero giudice galantuomo, abbandonato al suo destino persino da alcuni suoi colleghi e orribilmente assassinato insieme alla sua scorta e, alla nazione sconvolta e atterrita la quale vorrebbe da lui Fanfani, presidente del consiglio e massimo rappresentante del potere esecutivo, sapere se è ancora possibile, e con quali mezzi lottare contro la mafia, insomma se è vero che la mafia si è ancora impadronita di una parte dello Stato e persino dell'esercizio della giustizia,
lui Fanfani, che non ebbe il tempo per leggere e capire la lettera di quel coraggioso, umile sindaco democristiano di Camporeale, e se ebbe il tempo non però l'intelligenza per capire quella disperata denuncia,
e se ebbe tempo e intelligenza non ebbe però il coraggio politico per scegliere fra quel piccolo, sconosciuto, indifeso democristiano del sud e il suo potente proconsole di corrente in Sicilia,
e così per non aver avuto tempo, o intelligenza, o coraggio praticamente lo condannò a morte, …
lui Fanfani, si limita furbescamente ad ammiccare a tutta la nazione ed ammonire: «Attenzione!».

Pippo Fava

http://www.fondazionefava.it