2010-11-24

Lettera dell'uomo nato sul muro di Berlino

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Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.

Cesare Pavese

Caro lettore,

non si nasce al confine. Al confine si muore soltanto. Per l'appunto è una vita che muoio, e che sono stanco, io Georg Friedlander di nascita a dir poco bastarda. Due mondi m'han fatto, son nato a Berlino, sul muro che accolse i miei pianti, e ne infranse di altri a non numerarli.

Sono affetto da uno strabismo dei sensi: birra o vino non fa differenza, non conosco il valore del rosso o del nero, tantomeno il turchino, figurarsi a coprirlo di stelle e di strisce.

Mi hanno insignito dell'accolitato del plutocratico capital-consumismo d'età postmoderna: non a caso in un culdisacco ier l'altro un polacco ha cavato da un pacco un pregiato salvatacco. Al che, con distacco, scandisco: “Perbacco!”. E che faccio? Stacco un assegno, lo compro, lo insacco, lo vestirò sul colbacco.

Nondimeno mio nonno è un cosacco.

Quando nasci su un confine è come nascere al centro della terra, aggrappato sotto 'l pelame di Lucifero, che mai da te non fia diviso. Quando nasci su un confine non hai un dove, né un quando: sei insieme una teoria mai pensata e una prassi mancata, sei un teatro senza poltrone, solo palco ed attori. Sei meno che un cane, perché non hai il pedigree. Sei antico come le montagne, duro e freddo e inorganico, ci sei da sempre e mai ci sei stato.

Mi prendo la briga di scriverti, lettore, perché anche tu – forse non lo sai – sei nato al confine. Quando le barriere crollano, tutto il mondo è frontiera. Io ti vedo, so chi sei: anche tu, come me, sei inorganico. Sei polvere tritata e servita a cubetti. Sei il dado Knorr della globalizzazione.

Anche tu, come me, non hai casa, né patria, né tempo. Sei fatto di ossa e sudore, la tua voce parla tintinnio di monete e ticchettio d'orologi, tace campane e memorie lontane.

Anche tu sei nato su un muro, ma senza graffiti, né scritte, né segno alcuno. Anche tu, come me, se non ti fermi e rifletti, passerai via, senza infamia e senza lode. Anche tu, come me, come gli altri, come tutti: c'è un “come” che incalza, rovina e annienta le rovine. C'è un numero che ti rende uguale agli altri: anche tu, come loro, infelice.

E non c'è colpa più grave che l'essere infelici.

Scava nella memoria dei luoghi e delle persone e dai luce ad un senso più sincero del tuo essere al mondo. Sporcati. Voglio vedere le tue mani sanguinare per recuperare quel senso da un tumulo di ingiustizia ed ipocrisia. Tu che puoi, va' avanti, corri dove il muro finisce e buttati giù, nella selva.


Georg Friedlander

2010-11-08

Parole ambulanti

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Un capogiro d’anestesia mi sveglia: seduta su sei gambe, la vertigine percorre il mio contorno.
Mi appoggio faticosamente a me, come ad un pentagramma la nota d’un violento jazz.
Riduco il corpo ad un ammasso di membra gonfie di vuoto, macchine per usi impropri; un apparente groviglio di materia in un balenante moto astratto, di luce e polvere riflessa.
Io, la testa allungata dentro la cassa, quadro introspettivo d’una maligna ironia, vedo l’anfratto dei motori vitali, avviluppati ed avvizziti sotto l’ordine d’un centro rococò.
Sospensione costante di quel che sarei, porto avanti un rocambolesco esperimento pittorico ed esistenziale, sfatato da un dolceamaro odore di respiro e desiderio di respirare ancora, desiderio di porre fine a questi gradi di lontananza, a questo barbarico miraggio, furia di scordar qualcosa d’indispensabile.
Eppure qui perdo solo me, nella carezza d’un ricordo, per non dimenticare la forma familiare di due guanti: turista del vuoto sbiadita dietro un sessanta gradi di pensieri imballati.
E chissà quando il vento mi restituirà agli adamantini fili d’un discorso verace, quando mi allontanerà dall’ingenua veste del mio ebete battesimo al moralismo!
Allora, non più devota ad una linea di sentenziosi sofismi, restituirò la libertà alla soffocata mia tirannia ed opprimerò quel buon senso rovinoso: affiderò la mia spietata condotta ai migliori sragionamenti animaleschi, e sarà delizioso, allora, non accorgermene.
Andrò al letto del tempo per urlargli addio: mi salverò dall’affannoso rincorrerlo.
Sarò senza percezioni, sarò l’ombra di me finalmente corsa lontano: ed io stessa correrò, pure azzoppata da un necessario cinismo della carne.
Ma persa dietro ad un atomo confuso tra falso e aspettazione, rimango qui.
Io sono ancora qui: nascosta dietro alla presunta scompostezza dei miei arti, ne assorbo la putrida essenza ed è delizioso, ora, non sentire altro.
Mi specchio in un dubbio d’esser solo di passaggio, e mi ubriaco di uno sfocato senso di me, risultato sillogistico d’una mezza esistenza.
Ebbra, vivo lentamente, e lentamente me ne torno via.

LAVINIA MANNELLI