2010-10-21

Tutti sotto terra

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"Giro-girotondo, casca il mondo, casca la terra..."

Un buon odore di caffè tostato svolazzava sopra i lampioni della viuzza. Da qualche parte una signora tirava un secchio d'acqua scura come i fumi del carbone sull'acciottolato, e un vecchio contadino dalla fronte corrugata, seduto sul lettino foderato di mussola, inforcava il suo cappello di cuoio marrone. La saracinesca di un'antica falegnameria ammantata di segatura gracchiava dietro l'angolo, un giovane dai capelli laccati entrava nel bar facendo frusciare la tenda di perline dietro di se, e un signore chiudeva la porta di casa con un tonfo ovattato e faceva tintinnare le chiavi. Un carretto elettrico squinternato rombava scoppiettando sulla strada, alcuni motorini sfrecciavano zigzagando tra le auto ferme accanto ai marciapiedi per dialogare, e una donna salutava ammiccando con la propria voce squillante. Due ragazzini col grembiule che scendeva sino ai piedi saltellavano vivacemente, piegati all'indietro da ingombranti e variopinti zaini scolastici.

Giuseppe amava la vita di Sammartolomeo, la vita delle piccole cose. Così come il suo bisnonno, suo nonno, il padre e anche il fratello, Giuseppe aveva provato ad allontanarsi da quel luogo, tentando la carriera universitaria nella lontana Calerno e, come il bisnonno, il nonno, il padre e anche il fratello (con cui spartiva la stessa sorte) non era riuscito a vincere il richiamo magnetico della propria terra. Nelle strettezze inquinate dei quartieri cittadini, sotto i lampioni gialli, nella sporcizia ai margini delle strade, Giuseppe non sapeva dimensionarsi; preferiva la vastità dei campi coltivati a rape e fagioli, il sempiterno sussurro dei faggi frondosi, l'odore del pomodoro che sale su a grandi folate dalla pignatte di peltro della cucina, la televisione accesa che conversa con il vicolo, di sera. L'essenza dolciastra che circonfonde l'armadio di pioppo coi pannelli di compensato, il ritratto in bianco e nero dei nonni con la cornice ornata da grappoli di uva eburnea, il ferro da stiro verniciato sopra lo scaffale dello sgabuzzino, le trecce di cipolla e l'alcova di vimini dei limoni che salutano l'imbrunire, rivolti verso la costa dove il sole sprofonda, divenendo un puntino insignificante e vermiglio. Giuseppe amava il suo paese, ed era per questo che, quella mattina di fine Ottobre, serrando due lunghi fogli di plastica arrotolata sotto il braccio, camminava a passi veloci, facendo risuonare tacchi della scarpe di pelle lustra sullo scuro selciato di porfido. Nella notte era scesa un po' di guazza, e ogni dieci passi, Giuseppe era costretto a rivalutare il proprio equilibrio e moderare il passo, per evitare che l'enorme stazza del suo ventre lo facesse capitombolare a valle.
Quando ebbe raggiunto la sua destinazione – il palazzo comunale – s'affrettò a chiedere dove fosse l'assessore Sammatrice, sostenendo di aver premura di comunicare certi dati orografici di grande importanza. Una vecchia signora dagli occhialoni spinti sulla punta del naso, le unghie laccate di rosso e un seno davvero abbondante, gli rispose facendo squillare la sua voce: “Non lo so dov'è Alfredo, chiedi a Maria!”. Ma Maria non c'era, allora Giuseppe intercettò un consigliere della giunta, Francesco Delluomo, un uomo con dei grandi occhialoni scuri e una giacca di velluto a righe celesti, che elargiva arguzie con tono beffardo a due dipendenti divertiti.
“Dov'è Sammatrice? E dove può essere, è giù al bar. Portagli i miei saluti se lo vedi, digli che ancora aspetto quel caffè!”, esclamò Delluomo, roteando il suo dito come un manganello, e sollevando imberbi risate da parte dei dipendenti divertiti. Giuseppe si precipitò alla volta del bar sport, con l'affanno in gola e una certa preoccupazione. Aveva studiato giurisprudenza, ma era appassionato di geologia, meteorologia e studio del territorio, tant'è che s'era pure procurato dallo zio professore due grosse mappe del monticino dov'era abbarbicato il suo paese, sulle quali conduceva i propri studi. Le sue ultime rilevazioni sugli strati superficiali e sotterranei delle falde rocciose sui quali appoggiava la superficie di Bartolomeo, comparate ai risultati forniti dall'assessore all'ambiente, e le immediate previsioni temporalesche, facevano presagire dei grossi pericoli che, se non neutralizzati con opportuni e tempestivi interventi cautelativi, avrebbero condotto Sammartolomeo sull'orlo del disastro.
Giunto nei pressi del bar, Giuseppe attese qualche secondo all'entrata, sfregandosi nervosamente le mani. I suoi genitori non erano le persone adatte con cui parlare di politica, poiché tendevano a iper-classificare ogni componente della classe dirigente come “ladrone” o “assassino”, salvo poi onorare il migliore offerente col proprio voto durante le redditizie campagne elettorali. Per accaparrarsi qualche striminzita informazione sulle manovre politiche locali, quindi, Giuseppe ricorreva alle chiacchiere da bar di qualche amico e ai giornali regionali. L'assessore all'ambiente, quel Sammatrice che doveva incontrare, era stato delegato dal sindaco all'incarico di supervisionare i lavori di drenaggio, consolidamento e rifacimento di alcune zone considerate a rischio, circa due anni addietro. I lavori erano stati condotti da una ditta di origine calernese, intestata a un certo Giovanni Nibbia, e di cui Sammatrice era socio fiduciario. Alcune malelingue avevano messo in giro la voce che gran parte del denaro destinato a quegli interventi era stato assorbito dall'azienda di Sammatrice, culminando in un nulla di fatto, giacché alcune segnalazioni di sfaceli e frane erano presto giunte da alcuni contadini giù a valle. Poi, però, le voci erano state messe a tacere, e non se n'era saputo più nulla. Quegli interventi, considerava Giuseppe, erano vitali per la sicurezza del proprio territorio, e proprio per quel motivo gli era difficile credere che qualcuno potesse infischiarsi della tutela della propria casa e della propria famiglia.
Così, facendosi coraggio, Giuseppe entrò nel bar, scostando la tendina. L'assessore, assieme ad altri due consiglieri, se ne stava appoggiato al banco, accanto ai contenitori di plastica dei cornetti alla crema e al cioccolato, a sorseggiare il suo caffè nella tazzina Torrisi. Giuseppe lo avvicinò e gli chiese timidamente udienza.
– E tu chi sei? Il nipote di peppino? E cos'è che vuoi, fammi vedere, – esordì, con il tono allegro e l'inflessione dialettale che deformava gli accenti e raddoppiava le consonanti. Giuseppe aprì rapidamente le proprie carte, e lo informò sui punti in cui riteneva s'annidasse quel problema che avrebbe portato a un brutto disastro se non preventivato.
– Ah, ancora sapendo, – rispose l'assessore divertito, – Ma quello è già stato risolto. Tu non ti devi preoccupare. –

– Signor Sammatrice, io ho ragione di credere che la situazione sia ancora critica, per questo vorrei chiedere l'autorizzazione di corrispondere con la regione… –, propose Giuseppe.
– Ma la regione che? – lo interruppe Sammatrice in malo modo, sbattendo la tazzina di ceramica smaltata, – Tu non chiedi niente a nessuno! Ma chi sei? Tuo zio lo sa che sei qui? –
– Signore, è nell'interesse di tutti mettere al sicuro la propria casa, mi stupisco che lei se ne infischi così clamorosamente, e che nessuno se ne indigni! –, sbottò Giuseppe, che non seppe trattenere il proprio rancore.
– Ma come sarebbe a dire! –, esplose l'altro, – Tu adesso te ne vai, o io vi querelo tutti? Hai capito? Vi querelo tutti e vediamo se poi avete ancora voglia di parlare! –, continuò, tirandogli un gomito e cercando addirittura di aggredirlo con scomposte manate.
– Calmati Giovanni, lassulu peddiri, è carusu! –, cercarono di stemperare gli amici, trattenendolo, – E tu vatinni, prima ca ti pigghiamu a timpulati
Giuseppe indietreggiò di qualche passo, trattenendo le lacrime, non per la manata, né per la minaccia improvvisa, ma per l'orrore provato nel constatare che quella paura che albergava nella sua mente, il timore per la propria casa, i propri amici, la propria terra, era non solo fondato, ma anche personificato nella figura di Giovanni Sammatrice. Quell'uomo vile e turbolento che scalciava e sbraitava tra l'indifferenza e qualche risata, perché pure il bar era pieno, e nessuno faceva nulla. Giuseppe scappò via, logoro di livore e furente dalla rabbia. Risalendo per le viuzze che incrociavano il centro, l'odore del caffè non gli parve aromatico, il rombo del motorino gli rimbombò in testa e lo squillo delle risate di due anziane signore che confabulavano fittamente gli diede alla testa. Si chiedeva: “Come possono stare tutti fermi? Come possono fare finta di nulla, se è della propria vita che si parla? Come possono fare orecchie da mercante di fronte alla verità o farsi intimorire da un omuncolo che minaccia vili querele?”.
Rientrato a casa, decise di chiudersi nella sua stanza ad attendere il temporale, che già ruggiva all'orizzonte. Se quegli ignobili avevano decretato la fine della sua terra, con il giudizio inappellabile dell'indifferenza e della paura, allora lui sarebbe morto con lei. Si carcerò nella sua stanza, ritirato in un angolino, aspettando quella strepitosa tempesta che aveva calcolato, ascoltando il sibilo del vento rafforzarsi sino a divenire un boato, ignorando il mondo. Punendo l'indifferenza con altra l'indifferenza, la sua, più nitida e innocente.
Poi le nubi scure coprirono Sammartolomeo, vomitando acqua per tre lunghi anni di fila, ma alla cittadina bastarono tre giorni per scomparire sotto il peso da quelle frane annunciate da Giuseppe, dilaniata e spezzata dal peso della terra divenuta acqua, cancellata come una emula Pompei. I cittadini annegati nel fango, schiacciati dalle colpe di cui la montagna era solo funzione, e non oggetto.

Così, molti anni dopo, tutte le persone che avrebbero commemorato l'esistenza di Sammartolomeo, avrebbero additato con sconforto alle frane indicandole come la causa della sua scomparsa, ma Giuseppe, cadavere che ancora ribolliva di spirito in quelle terre, nel segreto oscuro della sua tomba d'argilla, avrebbe custodito per sempre il vero segreto della distruzione che aveva straziato il suo paese: l'indifferenza.

"...tutti giù per terra"

2010-10-14

491

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Stretti nella folla di passeggeri del 491, in piedi da circa mezz' ora, diretti verso una metà irraggiungibile.
Non pensavo che a Roma ci si impiegasse così tanto per arrivare in anticipo in un posto che, da casa mia, raggiungerei in 5 minuti. Incomincio a rimpiangere quell’ euro che avrei potuto impiegare per qualsiasi altra stronzata! Mi sento “leggermente” compresso, stritolato, a tal punto che non riesco più a percepire dove finisce il mio corpo e inizia quello degli altri! Quì c’ è un gomito, là c’è un rene... oh, il mio fegato ha appena fatto amicizia con la mano di qualcuno. Mi sento colare addosso il sudore del magrebino emaciato che si slancia come una corda di violino, per reggersi alla sbarra di ferro sopra di me. Sento la voce di una donna straniera ammonirmi sull’ orecchio sinistro parole slave, slavate, insignificanti. Siamo - tutti - nella - stessa cazzo - di barca. Ognuno con la sua routine da espletare fino in fondo: studenti che si sorridono e parlano di un compito in classe troppo difficile, punk /metallari/rifiuti umani che improvvisano una revisione discografica per il nuovo disco dei “Black Saturn”, rumeni e albanesi sporchi di stucco e calce, pietrificati sui loro jeans – un tempo blu- somiglianti a statue di sale.. più che routine, sembra una ruota della tortura! Ho la nausea. Odio questa fila, fatta di gente che sbraita, si lamenta e ricade curva nelle seggiole di plastica. Almeno io rimango nella mia silenziosa sopportazione, come il magrebino. I finestrini sono aperti, e ogni tanto percepisco anche qualche particella di ossigeno sfiorarmi il viso, ma è un miraggio. L’ aria non circola. Ha così tanti polmoni da sfamare che, prima di arrivare qui, si trasforma in vapore. Una signora anziana ben vestita, laccata e curata si sta specchiando sulla vetrata del bus. Che orrore pietoso vederla con quell’ espressione sulla faccia! Gli angoli della bocca piegati verso il basso, in una smorfia di disgusto per se stessa e gli altri. Dal viso gli pende una carne pallida e raggrinzita - un tempo morbida e rosata– che sembra cibo per cani. Ma a che diavolo sto pensando? La verità è che nessuno riesce ad adeguarsi al tempo, ed è per questo che ora la signora ha rivolto il suo avido sguardo verso una biondina due posti avanti a lei. "Che fa signorina, SCENDE?!", povera ragazza! Martirizzata dal peso dell’ esame di diritto privato, toccata nei suoi anni più splendidi dalla triste consolazione di aver barattato la sua gioventù con un bel pezzo di carta! "Si…no! Non devo scendere" , risponde insicura, stringendosi al petto il suo libro. La vecchia fa strage di spalle e si fa avanti, con gli occhi fissi ai capelli della fanciulla. Chissà perchè, adesso le sorride. Prima fermata: il bus defeca un moltitudine di facce, di sguardi, di situazioni prima di inghiottirne altre. Poi, dopo essersi riempito lo stomaco, ricomincia a camminare, con il suo passo pigro, lento. Ora accanto a me ho un “ ipod vivente ”, che si mette a canticchiare a bassa voce una canzone pop, un po’ triste. Il magrebino! Lo guarda con la mia stessa disapprovazione, poi si gira e cerca di scorgere da lontano la facciata del bus – ambizioso! -. No, nessuno è mai riuscito a vederne la fine, quando è martedì! Chi guida? Chi è che gli sta affianco? Chi grida? Chi ride? Non ci si capisce una mazza! E ill mondo gli scorre accanto, con i suoi cumuli di pattume agli angoli delle strade... con i suoi cani randagi. E’ fastidiosamente veloce,ora. Non ci si ferma mai, se non per scendere o per salire. E siamo tutti qui dentro, diretti verso le stessi posti: pusher, studenti, lavoratori in nero, universitari, nerd, vecchie, giovincelli con la mamma, colf, e in ultimo io… Perché anche se in fondo trovo sconcertante la situazione, ci sono e sto in piedi ( COME IL MAGREBINO CHE PUZZA). Io... sono soltanto un altro passeggero anonimo, uno dei tanti che non si lascia persuadere dalla bellezza del viaggio, che cerca di guardare la postazione del conducente. Abbiamo tutti pagato lo stesso prezzo per essere qua! Essere abusivi in questa marea è del tutto fuorché un privilegio. Perché quando passerà il controllore sono sicuro che non guarderà in faccia nessuno, non noterà nemmeno la puzza di merda che attornia questo bus, né l’ età o lo status sociale, o l’ etnia. Non ci sarà nessuna discriminazione, né tempo per scendere e scappare. Quando il cappellino blu si agiterà tra la folla, si assisteranno a due tipi di reazione: quella di chi vive con sprezzo la vita e tenta stupidamente la fuga, e quella di chi bonariamente cercherà di strapparsi un sorriso dalla faccia esibendo il tesserino. Ora come ora me ne rimango qui, aggrappato a questa sbarra ormai calda, in compagnia di tutti e di nessuno. E’ un po’ come camminare da solo in mezzo alla fila della domenica in centro. Il magrebino ha capito la situazione e lancia delle occhiate al carticino che ha sulle dita.
Ma tu? Tu ce l’ hai il biglietto?


SIMONE PALMIERI

2010-10-08

Lettera del Misantropo moribondo per molta bile al cuore.

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Finalmente mi definivo Misantropo. Avevo smesso di infarcirmi il cuore, sede dei sentimenti, con quelle sviolinate smielate sul modello libro Cuore. Avevo smesso di vedere, come un pesce boccheggiante, quegli stupendi pesciolini colorati. Pesciolini colorati che erano esche: e nascondevano ami. Pronti a devastare la mia bocca sempre pronta. Pronta a gridare parole d’amicizia. Parole d’amicizia stop. Sentimento d’amicizia doppio-stop. Ora basta! concedersi per intero, concedersi tutto, concedersi a tutti, aprire il culo come un trans per una dose di amicizia che sarebbe arrivata sporca, tagliata male, infetta di sangue malato. Niente purezza ideale. niente stato perfetto nell’amicizia. Era ormai una dose di eroina scarica, una dose verso la morte, lontano dall’esistenza ideale-pura- astratta. Da bravo credente-praticante cercavo e, illuminato da varie teorie filosofiche più o meno idealistico-buonistiche, credevo che il bene avrebbe trionfato, che l’amico perfetto sarebbe esistito, che qualcuno che per me avrebbe dato il culo -come io avevo fatto tante volte- ci sarebbe stato. Ma no. Non era così. I tempi cambiati: alcuni malati mentali, cazzi-loro congeniti da sbrigare, senza tempo e modo per servirmi, desiderosi solo di essere serviti con un’attenzione maniacale alle stronzate che avrebbero vomitato sui loro problemi personali con un Ego degno del peggiore dittatore sudamericano. Altri, pur professandosi liberi, fermi perennemente in schemi fissi, fermi in filosofia, nella libertà sessuale professataMAIpraticata, inchiodati ad idee noiose e pararivoluzionarie stantie come la parola stantio. Allora stop: rigetto le teorie filosofiche più o meno idealistico-buonistiche, mando in soffitta secoli di riflessione filosofica, me ne fotto della mediazione e dell’accettazione della diversità degli altri, me ne sbatto della politica delle amicizie, mi propongo e scompongo come corridore di un gran premio con un alettone completamente rotto e col motore della scuderia che invece di avere macchine formula1 manda in pista cavalli con caschi (in realtà elmi medievali) e con alettoni montati sulla coda e zoccoli duri o morbidi sul bagnato e sull’asciutto e viceversa. Deluso dall’angoscia interiore provocata dal mio malessere psico-esistenziale continuo, mi alcolizzo con il solito stock alla ciliegia e vomito in un anfratto sconosciuto in cui trovo un lombrico che mi sta simpatico, per cui provo empatia, che so non mi tradirebbe per una ragazza più figa di me, che so che non preferirebbe una devastante discussione ripetitiva a quel silenzio che sta unendo il nostro incontro e lo sta suggellando come ceralacca sulla lettera del cardinale di sticazzi. Prendo il lombrico e lo schiaccio con tutta la violenza di cui è capace il palmo della mia mano: anche lui, se fosse uomo, mi tradirebbe, se ne avesse l’occasione. E infatti lo fa anche da animale: la mia mano, che l’ha schiacciato con la violenza con cui un’amica usa un voodoo su un’amica rivale in amore, adesso puzza del suo tanfo infernale, come infernale è il tanfo dei tradimenti, delle pugnalate, dei calci che mi sono stati dati e che ho tollerato da bravo penitente-credente. Adesso basta. Ogni atteggiamento, pure legittimo, pure corretto, pure parte integrante del carattere di un individuo, può irritarmi e diventare oggetto di acido solforico e uova marce che fluiscono adesso libere dalla mia bocca, senza più alcun freno. E tanto sarò più caustico quanto sarò sottilmente ironico. Tanto manifesterò disagio quanto più, da solo, mi crogiolerò nel dolore per la perdita di un valore mai esistito, per la morte di un dio ingiusto. Nella certezza che se non ho la stanza dei bottoni con cui far venire le emorroidi a falsi detentori della giustizia, ci sarà sempre un millepiedi in un anfratto, un millepiedi pronto a farsi schiacciare. E l’unica consolazione sarà pensare che a tanti piedi possano corrispondere tante gambe (da spezzare).

2010-10-02

The promise

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Sposto le tende. Seguo la musica. Qualcuno sta suonando un pianoforte. E, quasi impercettibilmente, canticchia. Ho delle scarpe nere, lucide, quasi mi ci specchio. Non ricordo, io, qui, non so.

La campagna era scivolata via, avvolta dalla nebbia. Il pullman l’aveva attraversata, violata, dimenticata. Lei, inaspettata osservatrice, contro quel finestrino. Vedeva il mondo scorrere. Lo vedeva sfumare nella velocità. Lei era lì, ma non si sentiva. Non riusciva a percepire se stessa. Si sentiva vuota e vaga, annientata. La giornata era passata, dandole l’illusione di normalità, di stanchezza. Lei era passata come la giornata, era passata come il pullman in mezzo alla campagna. Era passata. E di lei non era rimasto nulla. Si sentiva persa. Guadava fuori dal finestrino e non capiva i suoi sentimenti in quel momento. Era stata felice? Si era sentita sola? Che cosa aveva provato? Che cosa provava? Aveva tanta voglia di piangere e non capiva perché. Aveva tanta voglia di rifugiarsi in inutili conversazioni con persone che non c’entravano nulla con i suoi problemi. Si sentiva persa. Tutto qui. E non aveva il coraggio di affrontare quella realtà da sola. Voleva l’appoggio di qualcun altro. E improvvisamente si mise a piangere. Improvvisamente. Senza capire il perché. Il pomeriggio era presto diventato sera. La luce era scomparsa. Le sue scarpe erano mute sull’asfalto. Continuava a percepire quella sensazione di vuoto. Era uno zero in quel momento. Poteva essere tutto. Forse, in realtà, non era proprio nulla. La guancia era la stessa. E si poteva quasi azzardare un “anche la lacrima era la stessa”. Lenta le scivolava fino alle labbra, per poi essere assaggiata da una lingua indifferente. Gli occhi spenti cercavano risposte fra i volti e i cieli delle foto attaccate al muro. Billie Holiday cantava la danza della lacrima sulla pelle olivastra. Già, anche la pelle era lontana dalla perfezione troppo intravista altrove e mai toccata con mano familiare. Era un qualsiasi giorno d’inizio dicembre e lei lo aveva visto dappertutto. Fra il candore dei simboli di più e meno infinito s’una lavagna scura, fra le curve degli alberi domenica sera, fra le lenzuola del suo letto. L’aveva desiderato per tutto il giorno, e non riusciva a non pensare alla sua pelle liscia, alle sue mani che sicure s’insinuavano in ogni parte del suo corpo. Con la sua intensità d’amante l’aveva sconvolta, fatta vibrare intimamente. Il paradiso era apparso, giustiziere nella notte, e l’aveva lasciata ansimante e appagata. E la pelle fremeva dal desiderio di essere di nuovo accarezzata, annusata, assaggiata, chiamata. Aveva voglia di lui. Aveva voglia del suo modo di gestire il suo corpo e quello di lei. Aveva voglia di essere penetrata con violenza per poi essere ammirata, nella calma dei sensi di lui, da occhi densi d’amore e da mani divine. E l’oro della pelle di lui stampata nella sua mente, sui suoi seni, nel suo sesso. Le labbra. Da qualche giorno, esaltate delicatamente da tenui rossi ciliegia, l’espressione più intensa del suo animo, era rappresentata dalle labbra. Deliziose morbide labbra di donna. Già, una donna. Però, dove? Nell’animo? Nella maturità delle scelte ( o delle non scelte)? Nella sensualità dell’espressione dei suoi desideri? Nel sentirsi, in rapporto a se stessa? Perché si ritrovava la sera a piangere lentamente, quasi nascondendoselo? Billie non aveva di quei problemi. Ripeteva all’infinito le stesse parole d’amore. Ma n’era convinta? Come poteva esserne così sicura? Se guardo intorno a me vedo solo lui. Ma se chiudo gli occhi che succede? Io, dove sono finita?

(Billie era ritornata a cantare. E lei era tranquilla. Lontano si sentiva il fruscio del giradischi. La voce era calda. Sul muro la foto di Baudelaire la fissava con severità. Aveva voglia di colorare. Di annusare il legno dei suoi pastelli per poi studiarne le sfumature. La giornata era calda e luminosa. Billie urlava sottovoce la sua solitudine. E lei incartava con le parole la sua vita. Il suo amore per lui e l’angoscia di ritrovarsi davanti ad uno specchio, e non vedere nulla, se non una densità chiara ma indifferente. Si era cercata fra le pareti lucenti di una stanza divina, si era cercata fra i corridoi e i pontili di una nave lunghissima. E il cielo. Già, senza il cielo nulla aveva più valore. Aveva voglia di ballare. Aveva voglia d’indossare un abito morbido e svolazzante. E di ballare tutta la notte. Forse proprio sul pontile di quella nave. Con tutte quelle luci deliziose).

Si sentiva dolcemente coricata s’un letto di petali morbidissimi che l’avvolgevano, seducenti, ricordandole ciò che di più prezioso custodiva la sfera d’argento denso e luminoso che era la sua anima: una profonda voglia di amare la vita. E tutto l’avvolgeva profondamente trasportandola in un vortice di sensazioni estreme. Tutto, le luci di Natale, l’acqua di quella città, i tramonti su quel cristallo, le vetrine con le decorazioni dorate, i pranzi in compagnia, le vecchie librerie piene di vecchi libri inglesi, stropicciati, vissuti, amati, ricordati, dimenticati. Tutto ciò che le era permesso di vedere, lei lo conservava stretto nel suo cuore, lo assaporava in quel possedere, e lo incartava con spesse tele di polvere di stella. Ma soprattutto aveva voglia di ballare deliziose canzoni jazz, dolci, lente. Because I’m in heaven when we’re together. Ballare, ballare, ballare, solo ballare, guardarsi negli occhi, baciarlo dolcemente, intensamente, fino alla fine della notte, sussurrandogli parole dolci, raccontandogli storie fantastiche, storie vere, storie che un giorno saranno vere. Vorrei ballare, fino a stendermi esausta s’un letto, dove, poi, riprese le forze, fare l’amore con lui, sussurrandogli parole dolci, ricordandogli tutte le nostre storie, ballando con lui, fissandolo negli occhi, dicendogli che lo amo in un modo infinito ed eterno. E in quella terrazza coperta, ci sarebbe un piano. Io mi siederei, lo guarderei negli occhi, e gli suonerei Blue Moon e tutte le canzoni jazz che possono rubargli dal volto un sorriso, perché il mio cuore si espande nella sua felicità. E canterei per lui, farei boccacce, performances improvvisate. Ma soprattutto starei zitta. Mi alzerei, mi aggiusterei il vestito con i lustrini accecanti. E lo amerei in un modo disperato. DISPERATO.

Sposto le tende. Seguo la musica. Qualcuno sta suonando un pianoforte. E, quasi impercettibilmente, canticchia. Ho delle scarpe nere, lucide, quasi mi ci specchio. Non ricordo, io, qui, non so. Il piano continua tranquillo, la voce si fa sempre più sicura, ignorandomi. Intravedo il piano, scostando la tenda di pesante velluto blu. Che voglia di suonare. Il motivo del piano è sempre più audace e accattivante. Ci vorrebbe una tromba. Non fa freddo. Mi tolgo la giacca. Ci sono delle luci, sul cornicione del balcone. Esco. E lei è lì. Lei, è lei che sta suonando il piano, è lei che canticchia. E adesso ha smesso di suonare e si agita sullo sgabello, ballando su chissà quale musica lontana. E accompagna i suoi movimenti con la voce. Porta un lungo vestito scuro, ricoperto di lustrini che ad ogni suo movimento, riflettono le luci del balcone, danzando anche loro. Deve essere proprio allegra, si è messa anche a fischiare. La guardo, incuriosito. La vedo cambiare musica nella testa. Ora si muove lentamente, si accarezza il corpo. Chissà chi sta cantando nella sua testa. Mi domando il perché dei suoi sospiri. Mi domando il perché del vestito scollato. Sulla schiena, sul petto. Mi chiedo il perché della sua pelle olivastra. E i capelli scuri, neri. La guardo, e sento che non potrebbe essere più lontana. La guardo. Ma io, cosa ci faccio qui? Decido di avvicinarmi. Passo dopo passo, comincio anch’io a sentire la musica. Un’intera orchestra, suona jazz. La vedo ballare, sento anch’io la musica, la voglio. Sento di volerla. La voglio con la sua musica che solo chi le sta vicino può sentire. La voglio con la sua pelle scura, coi suoi capelli neri, e col suo corpo che sembra promettere solo intensità. Le sfioro la spalla. La pelle è morbida. Lei si gira. Mi guarda. I suoi occhi sono neri. Dio, come sono neri. Le sue labbra sono dense di sensualità, quasi mi chiamano. Stavo pensando a te, mi chiedevo come mai tardassi tanto. Mi ha parlato. La guardo sorpreso. Vuoi ballare con me? La stringo fra le mie braccia. Potrebbe non esistere, tanto è assurdo che io sia qui, con lei, che mi aspettava. Ma non m’importa. Se è l’unico modo di esistere, qui con lei, allora scelgo di essere anche solo un personaggio di un suo racconto. Sento di amarla. Sento di conoscerla, di volerla scoprire, nuova, fragile, speciale, sensuale, semplice. Lei. Balliamo, balliamo, amore mio. Resta qui con me. Siamo solo dei pensieri. Stringimi. Ti prego. Il sogno potrebbe finire, e tu svanire nel nulla. Stringimi, sento di volere solo questo. Cosa ne sarà di noi domani? Siamo così fragili, così leggeri. Lasciati vivere da me, così da impararti a memoria per sognarti ancora, e ancora, e ancora.