2010-05-21

Elogio del silenzio ovvero sull'eterna stupidità cosmica.





Ascolta, fratello,
il silenzio delle stelle.
Abbandona
lo stridio dei cancelli.
Attraversa
le porte del cielo.
Annusa, amico mio,
l'eterna
stupidità cosmica.



Le nostre esistenze affannate e sudaticce, i nostri singhiozzi spezzati e le nostre risate convulse, le nostre urla esaltate e i nostri sussurri indistinti, tutto il nostro quotidiano chiasso si spegne, e non ci appartiene più nel silenzio. Mi è capitato che talvolta, oppresso da stenti e ansie procurati dal fatto d'esser nato, dalla ripetitività delle giornate incolore, io senta il bisogno di fuggire, di cercare, irrequieto, un significato altrove. È così che, come oggi, imbocco un viottolo buttato giù a pestoni sull’erba alta, vicino casa mia, e percorro decine di metri da solo, accompagnato solo dal cadenzato rumore dei miei passi sulla sterpaglia. Cammino. La marcia solitaria si interrompe soltanto quando sento di essere abbastanza isolato, pienamente circondato e sommerso dal verde. Non c’è una destinazione abituale a dirigere i miei piedi durante il tragitto. Semplicemente, mi fermo nel momento in cui mi sento interamente assorbito dal silenzio, e le mie noie e le mie speranze mortali non esistono più, spazzate via dall’eternità che vive in questi luoghi. Oggi il vento accarezza le foglie, i giunchi, le pietre e la terra umida, le mie spalle scoperte, come la mano d’un’amante, talora appassionata e impetuosa, talora, invece, dolce e languida. Ogni tanto una foglia stanca decide di staccarsi, traccia una serie di curve sinuose nell’aria, e giravolte, e si poggia sul prato molle. Ha piovuto da poco, ed ogni cosa è intrisa di quel malinconico profumo d’autunno che ho sempre amato. Il cielo si sta lentamente rischiarando, le nuvole si discostano trascinate dal vento, e lasciano campo ad un tiepido sole pomeridiano. I suoi raggi deboli accennano una tinta ambrata sulla superficie irregolare degli ulivi e sull’erba pallida. Seduto su una pietra, mi vien da pensare: noi, io e tu, amico lettore, vittime di un egocentrismo che rende ogni ostacolo uno scoglio insormontabile, forse troppo di frequente dimentichiamo l’ironia che ci avvolge: è così semplice per noi sperimentare la maestosa sublimità della natura, sempre fedele al proprio andamento, e sentirci fieri di esserne parte, eppure così difficile, se non di fronte a tanta divina indifferenza che è nel soffio del vento e nelle gocce di pioggia, ridere delle nostre preoccupazioni, destinate, come noi, a svanir presto. Vengo al cospetto del silenzio per sentirmi parte di qualcosa, non per conseguire un ideale che sottenda ancora alle parole, ai discorsi, alla vuota retorica di un’ideologia, ma per recuperare uno sguardo semplice, bambino, che si soffermi spensierato sulla magnificenza dell’indescrivibile. Certe volte il silenzio scaccia tutti i problemi, mentre le parole non fanno che costruirne di nuovi, castelli di sabbia che al soffio di un bimbo dispettoso e al moto brioso del mare che travolge cedono la propria forma e si lasciano disfare, pur senza perdere quella chimica essenziale che è la nostra perpetua tendenza al lamento.
Ora ascolta con me, fermati, amico lettore: silenzio.

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