
Il lampadario lo guardava, una elegante bottiglia di vino bianco siciliano ormai vuota lo guardava indispettita. Era giugno, la finestra era aperta, sentiva freddo per il vento bluastro che entrava. La luce incartapecorita della stanza lo disturbava e i pensieri si affollavano a quella scrivania ricolma di libri, sacchetti della spesa vuoti, biscotti, ombrelli, fotocopie, temperini, chiavi e forbici e pinzette. La scopa con la paletta per raccogliere la polvere attaccata lo scrutavano, anche loro, e lo derideva beffardamente persino il codice a barre. La televisione spenta lo rispecchiava e sul suo schermo nero era riflesso un volto spento, pieno di rughe e di una barba rossiccia: almeno la forfora era nascosta, e se ne rendeva conto mentre pensava anche alle scarpe da ginnastica sul davanzale, che puzzavano di marcio ormai da giorni. Non si era potuto cambiare i calzini per tre giorni (aveva dormito in giro per la città, da amici) e quello era il risultato francamente avvilente, anche perché non era dipeso da lui, come sempre. E aveva solo un altro paio di scarpe, le “scarpe belle” orgogliosamente le chiamava, che non si voleva mettere per non impuzzolire anche quelle, perchè il problema erano i suoi piedi, non erano le scarpe in sè. E l’università e le crisi economiche e il fatto che se fosse morto oggi l’avrebbero pianto per un paio di giorni, i più, e poi tutto nel dimenticatoio lo rendevano triste: ma non era questo, non un desiderio di memoria. Era Il fatto che fosse così per tutti, che siamo atomi e ci interessa per natura la nostra conservazione, che se muore qualcuno lo piangiamo perchè manca a noi, (perché, tanto, lui non c’è più, lui.) e non è dispiacere per lui. È dispiacere per noi. E poi il lampadario che lo guardava e gli diceva di andare dal ferramenta a comprarsi una corda perché questo è il mondo, e che tanto cosa ci voleva fare. Doveva saperlo che il mondo è così, che le regole del gioco sono queste, che l’arte, la metafisica, la cultura, la società, la politica sono morte. No. Mandò a cagare il lampadario. Il lampadario non poteva averla vinta quella sera. Lo sapeva che quell’agire dell’affare metallico era un modo per sedurlo (unico interesse della bestia di ferro e lampadine), per portarlo a copulare con sè. Voleva il suo collo, con il solo preservativo possibile, la corda. Ma anche per oggi sarebbe sfuggito a quell’ affascinante amplesso con la creatura pendente dal soffitto. L’avrebbe fatto scrivendo, scrivendo una poesia sul male che sentiva per non poter sfogare i propri ormoni liberamente. Come una lucertola che per il proprio DNA si sdraia al sole, così la sua voglia di sesso inibita dal rispetto etico per chi la pensa, sbagliando biologicamente e razionalmente, diversamente:
Lei mi amava ma io no.
Cercavo il suo corpo
Con le mani.
cercava il mio amore
Con il cuore.
Lei mi amava ma io no.
Aveva paura di dirmi cosa
Sentiva nel cuore.
Io avevo voglia di cercare
Nel suo reggiseno.
Lei mi amava ma io no.
Ero crocifisso dal
Suo amore
A non baciarla,
a parlare per ore.
Lei mi amava ma io no.
Volevo il suo calore
Il suo corpo,
lei mi dava torto,
voleva il mio amore.
Loro mi amavano ma io no.
Ero stufo del loro
Volersi sentire sempre
Amate, desiderate,
apprezzate, uniche,
le sole, le più belle.
Volevo solo arare i campi,
mietere il grano,
amarle una notte
e poi salutarci.
non le catene
di un lungo
rapporto.
non la croce
della stessa voce.
non lo stesso profumo.
non le stesse meringhe.
non le stesse
vaniglie.
Vivere libero,
correre di letto
in
letto.
Essere libero,
volare di tetto
in
tetto.