2010-05-26

Il lampadario

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Il lampadario lo guardava, una elegante bottiglia di vino bianco siciliano ormai vuota lo guardava indispettita. Era giugno, la finestra era aperta, sentiva freddo per il vento bluastro che entrava. La luce incartapecorita della stanza lo disturbava e i pensieri si affollavano a quella scrivania ricolma di libri, sacchetti della spesa vuoti, biscotti, ombrelli, fotocopie, temperini, chiavi e forbici e pinzette. La scopa con la paletta per raccogliere la polvere attaccata lo scrutavano, anche loro, e lo derideva beffardamente persino il codice a barre. La televisione spenta lo rispecchiava e sul suo schermo nero era riflesso un volto spento, pieno di rughe e di una barba rossiccia: almeno la forfora era nascosta, e se ne rendeva conto mentre pensava anche alle scarpe da ginnastica sul davanzale, che puzzavano di marcio ormai da giorni. Non si era potuto cambiare i calzini per tre giorni (aveva dormito in giro per la città, da amici) e quello era il risultato francamente avvilente, anche perché non era dipeso da lui, come sempre. E aveva solo un altro paio di scarpe, le “scarpe belle” orgogliosamente le chiamava, che non si voleva mettere per non impuzzolire anche quelle, perchè il problema erano i suoi piedi, non erano le scarpe in sè. E l’università e le crisi economiche e il fatto che se fosse morto oggi l’avrebbero pianto per un paio di giorni, i più, e poi tutto nel dimenticatoio lo rendevano triste: ma non era questo, non un desiderio di memoria. Era Il fatto che fosse così per tutti, che siamo atomi e ci interessa per natura la nostra conservazione, che se muore qualcuno lo piangiamo perchè manca a noi, (perché, tanto, lui non c’è più, lui.) e non è dispiacere per lui. È dispiacere per noi. E poi il lampadario che lo guardava e gli diceva di andare dal ferramenta a comprarsi una corda perché questo è il mondo, e che tanto cosa ci voleva fare. Doveva saperlo che il mondo è così, che le regole del gioco sono queste, che l’arte, la metafisica, la cultura, la società, la politica sono morte. No. Mandò a cagare il lampadario. Il lampadario non poteva averla vinta quella sera. Lo sapeva che quell’agire dell’affare metallico era un modo per sedurlo (unico interesse della bestia di ferro e lampadine), per portarlo a copulare con sè. Voleva il suo collo, con il solo preservativo possibile, la corda. Ma anche per oggi sarebbe sfuggito a quell’ affascinante amplesso con la creatura pendente dal soffitto. L’avrebbe fatto scrivendo, scrivendo una poesia sul male che sentiva per non poter sfogare i propri ormoni liberamente. Come una lucertola che per il proprio DNA si sdraia al sole, così la sua voglia di sesso inibita dal rispetto etico per chi la pensa, sbagliando biologicamente e razionalmente, diversamente:

Lei mi amava ma io no.

Cercavo il suo corpo
Con le mani.
cercava il mio amore
Con il cuore.

Lei mi amava ma io no.

Aveva paura di dirmi cosa
Sentiva nel cuore.
Io avevo voglia di cercare
Nel suo reggiseno.

Lei mi amava ma io no.

Ero crocifisso dal
Suo amore
A non baciarla,
a parlare per ore.

Lei mi amava ma io no.

Volevo il suo calore
Il suo corpo,
lei mi dava torto,
voleva il mio amore.

Loro mi amavano ma io no.
Ero stufo del loro
Volersi sentire sempre
Amate, desiderate,
apprezzate, uniche,
le sole, le più belle.
Volevo solo arare i campi,
mietere il grano,
amarle una notte
e poi salutarci.
non le catene
di un lungo
rapporto.
non la croce
della stessa voce.
non lo stesso profumo.
non le stesse meringhe.
non le stesse
vaniglie.
Vivere libero,
correre di letto
in
letto.
Essere libero,
volare di tetto
in
tetto.

2010-05-21

Elogio del silenzio ovvero sull'eterna stupidità cosmica.

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Ascolta, fratello,
il silenzio delle stelle.
Abbandona
lo stridio dei cancelli.
Attraversa
le porte del cielo.
Annusa, amico mio,
l'eterna
stupidità cosmica.



Le nostre esistenze affannate e sudaticce, i nostri singhiozzi spezzati e le nostre risate convulse, le nostre urla esaltate e i nostri sussurri indistinti, tutto il nostro quotidiano chiasso si spegne, e non ci appartiene più nel silenzio. Mi è capitato che talvolta, oppresso da stenti e ansie procurati dal fatto d'esser nato, dalla ripetitività delle giornate incolore, io senta il bisogno di fuggire, di cercare, irrequieto, un significato altrove. È così che, come oggi, imbocco un viottolo buttato giù a pestoni sull’erba alta, vicino casa mia, e percorro decine di metri da solo, accompagnato solo dal cadenzato rumore dei miei passi sulla sterpaglia. Cammino. La marcia solitaria si interrompe soltanto quando sento di essere abbastanza isolato, pienamente circondato e sommerso dal verde. Non c’è una destinazione abituale a dirigere i miei piedi durante il tragitto. Semplicemente, mi fermo nel momento in cui mi sento interamente assorbito dal silenzio, e le mie noie e le mie speranze mortali non esistono più, spazzate via dall’eternità che vive in questi luoghi. Oggi il vento accarezza le foglie, i giunchi, le pietre e la terra umida, le mie spalle scoperte, come la mano d’un’amante, talora appassionata e impetuosa, talora, invece, dolce e languida. Ogni tanto una foglia stanca decide di staccarsi, traccia una serie di curve sinuose nell’aria, e giravolte, e si poggia sul prato molle. Ha piovuto da poco, ed ogni cosa è intrisa di quel malinconico profumo d’autunno che ho sempre amato. Il cielo si sta lentamente rischiarando, le nuvole si discostano trascinate dal vento, e lasciano campo ad un tiepido sole pomeridiano. I suoi raggi deboli accennano una tinta ambrata sulla superficie irregolare degli ulivi e sull’erba pallida. Seduto su una pietra, mi vien da pensare: noi, io e tu, amico lettore, vittime di un egocentrismo che rende ogni ostacolo uno scoglio insormontabile, forse troppo di frequente dimentichiamo l’ironia che ci avvolge: è così semplice per noi sperimentare la maestosa sublimità della natura, sempre fedele al proprio andamento, e sentirci fieri di esserne parte, eppure così difficile, se non di fronte a tanta divina indifferenza che è nel soffio del vento e nelle gocce di pioggia, ridere delle nostre preoccupazioni, destinate, come noi, a svanir presto. Vengo al cospetto del silenzio per sentirmi parte di qualcosa, non per conseguire un ideale che sottenda ancora alle parole, ai discorsi, alla vuota retorica di un’ideologia, ma per recuperare uno sguardo semplice, bambino, che si soffermi spensierato sulla magnificenza dell’indescrivibile. Certe volte il silenzio scaccia tutti i problemi, mentre le parole non fanno che costruirne di nuovi, castelli di sabbia che al soffio di un bimbo dispettoso e al moto brioso del mare che travolge cedono la propria forma e si lasciano disfare, pur senza perdere quella chimica essenziale che è la nostra perpetua tendenza al lamento.
Ora ascolta con me, fermati, amico lettore: silenzio.

2010-05-05

L'estetica dei Peanuts

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Umberto Eco definisce “poeta” il grande narratore a fumetti Charles M. Schulz, creatore dei Peanuts, e motiva il perché del suo giudizio così: “ Quando dico poeta lo dico per fare arrabbiare qualcuno. Gli umanisti di professione, che non leggono i fumetti, e coloro che accusano di snobismo gli intellettuali che fingerebbero di amare i fumetti. Ma sia bene inteso: se poesia vuole dire capacità di portare tenerezza, pietà, cattiveria a momenti di estrema trasparenza, come se vi si passasse attraverso una luce e non si sapesse più di che pasta sian fatte le cose, allora Schulz è un poeta...”

Parlerò chiaramente, cercando di evitare gorghi di parole.

Le estetiche fondate prima del 900 sono portate per loro natura ad essere estetiche sistemico-definitorie: sistemiche perché ogni filosofo racchiude la realtà dentro un sistema, in una visione già costituita. Definitorie perché la presenza del sistema obbliga a definire, quindi a chiudere entro confini, in una definizione univoca. In una riflessione di questo tipo la domanda che ci si porrà è “Cos’è l’arte?” e si risponderà con una definizione “ L’arte è...”. Definendo hanno preteso di aver individuato l’oggetto e di aver dato una definizione assoluta, che vale per sempre e per tutti, di arte. Tuttavia queste pretesa definitoria e di univocità ha dato luogo a una molteplicità di risposte eterogenee tutte pretendenti all’assolutezza. Da una domanda nascono una molteplicità di risposte da parte di filosofi, critici e artisti.

Com’è possibile che le cose stiano così? Perché Kant, Hegel, Croce e tutti coloro che si sono interrogati mediante la domanda “Cos’è l’arte?” hanno dato una risposta differente? Come spiegare l’ingresso violento della categoria del brutto nella riflessione estetica? Come spiegare l’ingresso della moda e del design nei manuali di estetica? Come spiegare la compresenza di Ariosto e Pulci nei manuali di letteratura? Come spiegare quella di Giotto e Duchamp nei manuali di storia dell’arte?

Per dirla con Anceschi, filosofo e critico del secondo 900 “siamo come dentro una selva di selve; e il problema della molteplicità di definizioni si impone. Ciascuna di esse ha la pretesa di esaurire per sempre l’argomento nella condanna di ogni altra prospettiva, e, nello stesso tempo, presto cade nell’oblio, scompare e come si dissolve.” Le spiegazioni a questa molteplicità possono essere varie:

1) Le cose stanno così perchè tutte le risposte alla domanda “Cos’è l’arte” sono state formulate da persone che la verità non la possedevano e tutte le risposte sono errate. pertanto io, con una posizione differente, affermerò il mio pensiero, creando a mia volta quella che penso sia la vera definizione.

Tuttavia, il risultato di questo approccio è escludere dal mio orizzonte il risultato di una riflessione plurisecolare (posto che la verità non la possiedo neanche io.)

2) A questa molteplicità può far fronte un atteggiamento opposto che sostiene il principio che la poesia non possa essere definita, un certo “je ne sais quoi”.

In questo caso, però, si vede che è anche questo un modo diverso per darne una definizione e allo stesso tempo esclude dall’orizzonte la riflessione di chi ha preceduto.

Esiste poi un’altra possibile risposta: è a questo punto che la riflessione, nel 900, si sposta su una analisi di tipo fenomenologico (dal gr. phainomai, manifestarsi): scopo di questa riflessione non è imporre una propria visione. Si è adesso interessati a cogliere la realtà nel suo manifestarsi per comprenderla, non per definirla. La realtà fattuale della molteplicità di risposte non è vista come negativa, ma degna di essere compresa per trovare un senso, per capire la molteplicità eterogena di risposte pretendenti all’assolutezza. E per rendere conto di questo bisogna guardare non all’oggetto (che come abbiamo visto è impossibile definire in modo assoluto), ma al soggetto riflettente, o meglio, ai soggetti, che si presentano come plurali per la funzione, per la postazione riflessiva, per la propria individualità, per il contesto storico-culturale.

1) Le funzioni sono quelle del critico, del poeta, del filosofo: tratto comune a questi soggetti è il fatto che si pongano la stessa domanda con pretesa di assolutezza, pretesa dovuta alla istanza di scelta, ossia alla necessità, nell’esercizio della loro funzione, di dare una risposta ed una sola. Per il poeta è legata al fare: quando un poeta sceglie delle parole queste sono assolute; è l’opera artistica l’istanza di scelta (funzione pragmatica – bisogno conoscitivo per fare), che impone di interrogarsi sulla poesia e costituisce la risposta alla domanda “Cos’è l’arte” dell’artista stesso. Per il filosofo e per il critico l’istanza di scelta è invece il sistema, perché è dentro il sistema che esiste una sola definizione di arte che chiude il sistema e, pertanto, lo convalida ed armonizza. Ciò dipende dal fatto che Il filosofo ha lo scopo teoretico-speculativo di sapere per sapere, il critico quello valutativo di sapere per giudicare.

2) La postazione riflessiva rispetto all’oggetto artistico, interna per il poeta (implicato nel fare), esterna per il critico e per il filosofo (non implicati nel fare).

3) L’individualità intesa nell’autonomia critico-razionale e di sensibilità di ogni soggetto considerato come unico e diverso da tutti gli altri anche all’interno della medesima funzione e della stessa postazione riflessiva (ad esempio Kant e Croce, entrambi con postazione esterna e funzione teoretica speculativa giungono a definizioni diverse).

4) il contesto storico-culturale che determina la risposta combinato ai precedenti 3 fattori.

Un’estetica comprensiva si propone di essere inclusiva, di comprendere le ragioni della pluralità delle definizioni, consapevole che non è possibile giungere ad una Verità valida per sempre e per tutti, ma che ogni singola risposta ha una sua importanza. L’arte indefinibile una volta per tutte e perpetuamente definibile, senza pretesa di assolutezza e, quindi, di esclusione delle forme artistiche altre rispetto alla nostra definizione. E’ in questo solco che la provocazione di Eco nel riferirsi a Schulz come ad un poeta acquista un senso, che la sua critica agli umanisti di professione, spesso definitori assoluti escludenti, mira ad osservare la realtà per quello che é, nella sua dinamica e stupenda molteplicità. É in quest’ottica che L’Orlando Furioso e il Morgante hanno pari dignità, in quest’ottica è possibile capire le ragioni del perchè siedano Duchamp e Giotto nella categoria di Arte, entrambi, con pari dignità, e ci si crea una risposta al perché il brutto, la moda, il design siano nella riflessione estetica.

E se la risposta alla domanda “Che cos’è l’arte?” data da Eco è inclusiva dei Peanuts, permetteteci almeno di includerla nel novero delle centinaia di risposte che sono state date nel mondo a questo stupendo enigma irrisolvibile una volta per tutte.