2010-04-29

Sale e pepe

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"Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d'ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle

facevano un tumulto, il qual s'aggira
sempre in quell'aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira."
Inferno, III, vv. 22-30




Scrutando di là dai vetri della finestra, sulla strada, mi adagiavo con lo sguardo sui giocattoli vivacemente colorati dei venditori ambulanti, lasciati a terra a riscuotere applausi e afflati dei bambini, piroettando e colmando l'aria di una congerie confusa di cantilene di una giocondità garrula e irrequieta.

Afferrai le chiavi e uscii. Appena messo il piede fuori dalla porta, fui sommerso dall'intenso odore della pioggia recente e dall'umido calpestio dei turisti che affollavano, per dritto e per converso, la via del centro storico, tutta volte, portici, colonne, ascensione spirituale e sensuale tensione. A contornare il flusso mutevole dei visitatori erano i vu cumprà, sempre gli stessi, i visi sbiaditi e spenti da una schiavitù secolare, e gl'incravattati e sempreverdi affabulatori delle boutique, perpetua evidenza epifanica della mediocrità della razza umana.

Ognuno una propria lingua: questo una sequela di colpi di laringe e vocali chiuse, un altro mille vocali diverse ed una passione per le nasali, un altro ancora lascia le frasi a metà, mentre i più fiduciosi gesticolano ad ampie volute con toni da panegirico. Il cancro del tempo moderno: una Babele rinnovata, una bestemmia strillata in infiniti idiomi differenti, ciascuno a maledire il proprio Dio perché “no, non era così che ce lo aspettavamo il mondo”.

Camminai di fretta a testa alta, scavandomi varchi in mezzo a una selva di mani sudate e nasi rivolti alle vetrine. Affondai in una stradina secondaria, prendendo finalmente respiro. Procedendo sempre a passo svelto mi guardavo attorno, ma nessuna novità: i soliti sorrisi dei politicanti stampati sul muro, vecchi delle vecchie elezioni, nuovi delle nuove Assunzioni al cielo delle Madonne e dei Santi da pregare per avere un “posto di lavoro”. “Non avrei mai pensato che si sarebbe finiti a pregare qualcuno per lavorare, come se fosse una cosa piacevole”, bestemmiavo anch'io, nella mia lingua, fra me e me.

Giunto in un piccolo parco, qualche siepe di bosso e due cipressi nel mezzo della città, mi sedetti su una delle due panchine, osservando le nuvole di cenere rincorrersi e spingersi trainate dal vento.

Rilassati gli arti ancora pulsanti, sprofondai il capo fra le mani, in atto di considerare l'Essere e i suoi predicati, la vita, la morte, Dio e i camposanti. Fui ridestato dal principiare della melodia lenta e malinconica di uno xilofono, accarezzato da un uomo anziano sul bordo opposto della strada. La riconoscevo: la “Sonata al chiaro di luna” di Beethoven.

L'uomo mi fissava con due occhi lucidi ed aveva capelli e barba sale e pepe, mentre le sue mani bacchettavano a memoria sui tasti. Pensavo che anch'io, prima o poi, avrei voluto essere un anziano xilofonista dagli occhi lucidi e, perché no?, suonare per qualche minuto all'aria aperta. Suonare, nonostante tutto.

L'uomo mi fissava con due occhi lucidi ed aveva capelli e barba sale e pepe, mentre l'aria si faceva più fresca e le luci delle lanterne più bianche. “Chissà dov'è, adesso, la luna, sepolta da quell'esercito di nuvole?”, mi chiedevo. “Starà ascoltando anche lei?”

Passò un ragazzo in bicicletta, pedalò, poi una donna rosso-vestita, cambiò la melodia.

L'uomo mi fissava con due occhi lucidi ed aveva capelli e barba sale e pepe, mentre la gente passava e la melodia cambiava. Quanti uomini e donne mi pareva di aver visto! In fondo, però, l'impressione era sempre uguale: monadi, isole, innumerevoli solitudini, anche e proprio quando cantavano insieme. Infine non si vive se non se stessi.

Eppure quell'uomo anziano viveva anche me, guardandomi, ed ero convinto che vivesse anche la luna, lassù, dietro le nuvole, e le nuvole stesse, e il vento e l'aria e le luci.

L'uomo mi fissava con due occhi lucidi ed aveva capelli e barba sale e pepe, la pioggia riprese a palpitare.


2010-04-06

A volte ritornano (..."I Siciliani" di Pippo Fava)

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I cambiamenti, come sempre quando sono talmente radicali da somigliare a delle vere e proprie rotture, appaiono repentini e inaspettati solo se li si osserva nel loro aspetto esteriore. Nel caso specifico sarebbe più giusto esprimersi nei termini di "cambio di ritmo". Nei contenuti di quello che è stato pubblicato precedentemente, invece, i prodromi del cambiamento covavano sotto una crosta sottile composta in ordine da: buona volontà, l'entusiasmo volontaristico tipico degli inizi e la considerevole dose di confusione che tutto ciò di norma porta con sé. Due mesi di silenzio sono un arco di tempo abbastanza lungo per riuscire a comprendere se un'assenza possa preludere ad un ritorno più o meno fecondo o viceversa ad un decesso senza alcuna possibilità di resurrezione (il riferimento pasquale è decisamente voluto). Questi vuoti sono, come in questo caso, occasioni imperdibili di confronto, chiarezza reciproca e, lungi dal voler mettere sul piatto dei paletti cui attenersi, i quali cozzerebbero col significato più profondo del progetto iniziale, indicano spesso una via da percorrere. Se le parole non trasudano sangue, sudore, vita il loro effetto non può essere altro che quello di rimanere esiliate lì, in un empireo di idee astratte, lontano anni luce da ciò che in realtà conta sul serio. Se questa distanza artificiosa in cui ci siamo volentieri rintanati ha sempre assunto per noi il senso della provocazione nei confronti della stantia situazione che contraddistingue il mondo in cui siamo immersi, traboccante di repulsione verso tutto ciò che abbia un valore culturale, adesso è viva in noi l'esigenza di fare un salto in avanti qualitativo immediato. Accanto alla critica provocatoria, che mai mancherà, è necessaria dunque una critica severa, pesante, a tratti feroce, comunque maggiormente sostanziale. Niente di sconvolgente insomma, solo crediamo sia giunto il momento di sporcarsi un po' le mani anche e soprattutto con una materia nuova: la realtà, quella tragica. Abbiamo ritenuto perciò necessario inaugurare questo nuovo inizio, che in realtà porta con sé qualcosa di nuovo conservando gelosamente il vecchio, con un pezzo che riteniamo possa rappresentare un riscontro concreto realativamente a ciò che goffamente abbiamo cercato di compendiare in queste poche righe. Buona lettura.



La redazione





Ogni cosa al proprio posto. Eppure, l’aria pesante.

La tensione tangibile.

Le bombe non scoppiano, per ora, ma il ticchettio dei timer è perpetuo, coperto da rombi di moto nella notte, che frenano, d’un colpo, gettando a terra uomini, come cani.

E tutti respirano questa aria, pesante, ma nessuno sembra farci caso, in uno strano alone di perbenismo e rassegnazione o, peggio ancora, di connivenza.

Mi ero riproposta, di essere il più impersonale possibile in uno spazio come questo.

In questa occasione non solo non lo sarò, ma, se lo fossi, sarebbe una profonda, profondissima mancanza.

Bisogna avere il coraggio di riscattarsi come esseri umani, mi hanno insegnato.

Io vivo in Sicilia, sono italiana, sì, ma prima ancora sono siciliana ed ho un rapporto con la mia terra carnale, morboso.

“Io so”, perché è una cosa che sento epidermicamente, che la crudeltà si è inasprita in questa terra, negli ultimi mesi.

A Palermo, stormi di elicotteri sorvolano le case da giorni, mesi.

A Palermo, agli angoli delle strade sempre le stesse facce.

A Palermo, gente ammazzata di fronte a palazzi, sorvegliati giorno e notte.

A Palermo, i negozianti sulle soglie, in attesa di qualcosa.

A Palermo, le facoltà, i mafiosi.

Chi se ne va da qui, pensa che tutto sia ormai nel dimenticatoio, pensa che tutto possa essere risolto commemorando quei “martiri inutili” delle stragi di Capaci, di Via D’Amelio.

Chi vive a Trieste o a Milano pensa sia un problema solo nostro.

Ed anche se qualcuno, decisamente più importante di me, afferma il contrario, si fa fatica a crederlo: dentro ognuno, la Sicilia è solo un posto dannato, da lasciare indietro come un ferito in battaglia.

Io sento di avere il dovere, nel mio piccolo, di smentire questa convinzione.

La Sicilia è in grado, con delle forze centripete che le sono arcanamente connaturate, di far scivolare nel baratro tutto ciò che la circonda.

La Sicilia, zoppa, impone la propria andatura a tutto il plotone.

Anche se diventasse uno stato autonomo (ciò che in effetti è anche ora) avrebbe comunque quel brutale ascendente sulle sorti del resto d’Italia.

Ho visto, ho sentito cose non avrei mai potuto immaginare, bandendo le facili citazioni in merito.

Perché, a noi, certe vicende le raccontano sempre come fossero spezzoni di far west, con litri di sangue e gente sgozzata.

Non è questo quello a cui alludo.

Alla violenza, intendo quella fisica, puoi abituarti.

Sembra assurdo, ma è così: umanamente puoi comprenderla, perché riguarda sempre la possibilità di circoscrizione del fenomeno, per cui quel tizio ha picchiato quell’ altro. Sai che devi convivere con questa possibilità, ci fai l’abitudine, ti armi per difenderti.

Per il resto, invece, non esistono armi. Solo ragionevoli dubbi.

Esiste un’iniziativa, promossa da un’associazione lodevole, “AddioPizzo”, rispetto all’affissione del simbolo dell’associazione all’interno di tutti gli esercizi commerciali che non pagano questo dazio ingiustificato ai boss di quartiere.

Ho visto moltissimi “bollini”, ho visto poche saracinesche.

Esiste gente che esulta in maniera spropositata per l’elezione di un Preside di una facoltà o di un’altra, gente che, per il ruolo all’interno dell’organico didattico, dovrebbe essere il diretto avversario “politico e istituzionale” al ruolo del preside (in un mondo democratico veramente, solo sul piano della dialettica ovviamente).

Ho visto giovani, come me, forti e sani, rimettersi completamente nelle mani di questo sistema di favori, compromettersi, definitivamente, magari per ignoranza, a vent’anni.

Ho visto, ed è la cosa che mi fa più male, gente spendersi esteticamente per cause buone e giuste e strizzare l’occhio alla via più semplice del favoritismo, magari esserne addirittura il promotore occulto.

Questo sì, mi fa paura. La battaglia ormai è persa o, quanto meno, non esiste più.

Non esistono più avversari reali al sistema. O, forse, non sono mai esistiti. E con questo non mi si accusi di vilipendio alle figure di Falcone, Borsellino, Fava, Impastato, Dalla Chiesa e tutti gli altri, che cellule sane hanno tentato di farsi più forti del cancro.

Hanno fatto più di quello che questa terra si merita.

Ora, le nuove generazioni ormai hanno in dotazione genetica l’ambiguità, non è nemmeno contemplabile una mobilitazione collettiva, una presa di coscienza. Le cellule sane rimarranno sempre isolate, poche, “inutili” se non per lenire sensi di colpa e servire per appiglio di facciata.

“Italiani, se volete salvarvi, uccideteci tutti.

Non perdonateci, come sempre, perché siamo belli: forse, la nostra bellezza non è più abbastanza.”

Per chi, servo innamorato di questa padrona infame, ne riconosce gli insormontabili limiti, brutture, l’impossibilità di riceverne aiuto, non può che rimanere questo ultimo ed indispensabile atto di coscienza, di ribellione, se non collettiva, quantomeno singola.



Valentina Sgrò



Foto di Letizia Battaglia, fotografa palermitana contro la mafia, ritratto di una vedova.